Teatro
I padroni, i servi e Bertolt Brecht
Ultimamente, per caso o per necessità, mi capita di andare alle famigerate pomeridiane. Si tratta degli spettacoli che, di solito a metà settimana, si fanno in orari per l’appunto pomeridiani, e sono destinati generalmente a un pubblico particolare. O le scolaresche o gli anziani, o le due comunità assieme. Dunque, mi ritrovo in mezzo a questi particolari e difficili tipi di spettatori. I primi, ribollenti di ormoni e distrazioni, pronti ad appassionarsi ma ardui da conquistare; i secondi – lo zoccolo duro degli abbonati, da rispettare quanto mai prima perché tengono in piedi la baracca teatrale – che trovano nel rito teatrale ancora un senso. Va detto, a questo proposito, che la storica latitanza di un’alta borghesia colta in Italia (attenzione: colta, non ricca) fa sì che il pubblico degli abbonati sia composto soprattutto da piccola e media borghesia, forse di impiegati o di insegnati, che resistono aggrappati con le unghie e coi denti alla degenerazione generale difendendo quel patrimonio culturale minimo cui ancora danno valore. Con buona pace dei pasoliniani di ritorno, questi piccoli borghesi sono ancora il nocciolo cui parla il teatro. Ed è buffo vedere le teste canute – come la mia – mescolarsi ai dread o alle zazzere delle scolaresche: però, quando uno spettacolo funziona, e riesce a catturare i divaganti adolescenti o a placare le tossi eterne degli abbonati, il gioco è meraviglioso.
È accaduto, ad esempio, in un Teatro Quirino di Roma, straesaurito, per Mr. Pùntila e il suo servo Matti, di Bertolt Brecht, spettacolo non nuovissimo (ma appena approdato nella capitale) del Teatro dell’Elfo, con la regia di Francesco Frongia e Ferdinando Bruni.
Capita raramente di vedere questa commedia in scena, e ormai è raro anche vedere un Brecht ben fatto. Dunque, l’occasione era ghiotta, e il pubblico ha risposto con entusiasmo.
Perché con Bertolt Brecht dobbiamo tornare a fare i conti: in epoche di minimalismo mimetico, di spettacolini autoreferenziali, di cinematografie “due camere e cucina” girate sempre più in dialetto, di sold out fatti grazie a papà mammà e a zio, Brecht sembra sempre più un gigante su cui riflettere.
Intanto per questioni eminentemente tecniche: gli dobbiamo, quantomeno, il tentativo in gran parte riuscito di rivoluzionare i codici del teatro, mettendo assieme arte e politica. Se Erwin Piscator superava l’arte per la propaganda, con la techné messa a servizio dell’uso politico, Brecht interviene e cambia la techné stessa, ossia il modo di fare teatro, per mutare il rapporto con la platea e con il singolo spettatore, indirettamente incidendo sulla politica.
Il guaio, passato quasi un secolo dalla sua innovazione teatrale, è che arriviamo come la nottola di minerva, quando i giochi sono fatti, quando la rivoluzione ha fallito, quando il comunismo si è mostrato dittatura o si è declassato nelle mille sottospecie di pseudo socialismo in cui brilla anche il renzismo italiano.
Così, assistendo alla bella edizione dell’Elfo di un’opera importante come Pùntila, diventa complicato non recepirla con il sopravvenuto disincanto, con la consapevolezza sopraggiunta, e dunque con una distanza che più brechtiana non si può.
Il testo, lo si ricorderà, si concentra sulla dinamica servo-padrone. Ma, paradossalmente, oggi siamo più portati a “comprendere” quel padrone che non a “solidarizzare” con il servo. Anzi: arriviamo quasi a sperare che ce ne fossero di padroni folli ma di buon cuore come Pùntila (tanto più se così ben connotato come è quello presentato, con grande ironia, da Ferdinando Bruni).
Lo scriveva Goffredo Fofi, parlando di “minoranze”: siamo un paese dove i poveri invidiano i ricchi, e dove i ricchi vogliono somigliare ai poveri. Il colmo della società attuale è aver convinto i poveri a amare, idolatrare, imitare i ricchi così si possano sentire simili ai loro modelli. C’è stato un definitivo rimescolamento di classi, padroni e servi condividono gli stessi idoli e gli stessi “maestri di vita” e, anche se i poveri sono sempre più poveri e i ricchi più ricchi, si somigliano per conformismo o volgarità (basti pensare a Lapo Elkann). I “servi” sono sempre più compiacenti verso i “padroni”, fino al punto di invidiarli se non altro per la capacità di acquisto.
Dunque, il Pùntila dell’Elfo è un punto di snodo, è un monito (auto)ironico che suona ormai come parodica ammissione di sconfitta. Il servo Matti era, nell’immaginario brechtiano degli anni 40, un “uomo”, un modello di dignità, consapevolezza e serietà. Ma la società sembra essere andata altrove: le speranze si sono dissipate, le dinamiche sono cambiate.
Lo sanno bene, dunque, anche i registi: si muovono sul filo del rasoio, ammiccando o mostrando, sornioni, sia quel che era sia quel che è.
E il Pùntila di Bruni è un dunque un buffo cialtrone alcolizzato, mai troppo duro, semmai incontrollabile come tanti protagonisti dello pseudo capitalismo italiano, che magari all’alcool preferiscono altre sostanze. Il Matti del bravo Luciano Scarpa è un saggio che preferisce giocare col padrone piuttosto che contestarlo. Vien da pensare che, forse, qui sia il nodo che lo spettacolo denuncia: la tolleranza verso i padroni. “La dignità – diceva più o meno Dario Fo – non è non aver padroni, ma combattere il padrone”: Matti preferisce assecondare e manipolare il padrone, rimanendo comunque al suo posto. Però quando si avventura nell’improbabile matrimonio con la figlia di Pùntila, la viziata e capricciosa Eva (bravissima Elena Russo Arman) svela l’impossibilità della “coppia mista”: servi e padroni non possono unirsi.
Il coro di popolane – Francesca Turrini, Corinna Agustoni, Carolina Cametti e una geniale Ida Marinelli, chiamate anche a più ruoli – dà un contraltare spiccio, reale, al tempo stesso comico alla vicenda, scandita dai bravi cartelli brechtiani e dalle songs incisive sulle musiche originali di Paul Dessau. A completare il cast, acutamente e elegantemente abbigliato da Gianluca Falaschi, sono Luca Torraca, Umberto Petranca, Nicola Stravalaci, Matteo de Mojana e Francesco Baldi: è il mondo che Pùntila influenza, invade, manipola, fatto da quella borghesia che segue o patisce la realtà.
Nello spettacolo ci sono delle attualizzazioni non banali (il mito del contratto a tempo indeterminato, per dirne una) eppure quando – con un inusitata attualità – il volubile Pùntila scaccia il comunista e la sua famiglia, vediamo esseri umani costretti ad abbandonare la loro povertà per andare incontro a un destino ancora più incerto: e si impone un’immagine che tanto rimanda ai migranti di questo cupo presente.
«Chi osa dire mai? Il mai diventerà oggi» scriveva speranzoso Brecht nella sua lode alla dialettica che risuona nello spettacolo: ma i vinti di allora non sono i vincitori di oggi.
Si ride, con questo Mr. Pùntila e il suo servo Matti: probabilmente il pubblico rise anche alla prima, nel 1949, all’inaugurazione del Berliner Ensemble. Ci resta il gusto amaro di chi sa come è andata a finire, nella Berlino Est del dopoguerra e nella Roma di questo inizio secolo.
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