Teatro
I beati anni della scenografia
Se devo pensare a una persona “geniale”, tra le tante cui potrei fare riferimento, penso a Francesco Calcagnini. Questo raffinato scenografo, regista, pedagogo (per me anche e soprattutto un amico) ha tutte le stimmate della genialità.
Intesa certo non come “fiamma che brucia”, ma come fardello da portarsi dietro, con cui fare i conti giorno per giorno: intanto una consapevolezza amara della vita e delle vicissitudini connesse; un’allegria stralunata nello stare al mondo; un essere costretto – spesso – a definirsi in un altrove non sempre ben indentificato: una fatica, insomma, a convivere con la propria creatività e la propria arte che spesso comporta una decisa marginalità.
Il tutto, però, sempre accompagnato da ironia, da gentilezza, da quello stupore infantile che rende limpido lo sguardo. Francesco ha alle spalle allestimenti importanti in opera e in prosa, ma da anni ha scelto un altrove tutto suo: lui, pesarese, insegna all’Accademia di Urbino, e ogni anno, con un manipolo di allievi, sforna saggi che definirli tali è sicuramente riduttivo, forse improprio. Perché si tratta di geniali allestimenti, fatti con quattro soldi, in cui sistematicamente l’invenzione dello spazio, la trasformazione della materia, la dialettica attore-scena vengono radicalizzati con esiti sorprendenti (basti pensare al meraviglioso lavoro fatto con gli allievi per Il Barbiere di Siviglia al Rossini Opera Festival).
All’Accademia diretta da Umberto Palestini, nella piccola aula-teatro, Calcagnini crea talento e talenti: un po’ come Copeau con i suoi copeaus in Borgogna, radunati però nelle viuzze rinascimentali di Urbino, il gruppo di giovani e giovanissimi scenografi studia e lavora per un anno dietro a un progetto che si brucia in un paio di repliche.
A far da filo conduttore della produzione 2016 è stato un bellissimo romanzo: I beati anni del castigo, di Fleur Jaeggy, che già affascinò Luca Ronconi.
Allora, passata la casa natale di Raffaello, girando a destra su per un’altra, ennesima salita, si arriva all’Accademia dove, uno spettatore alla volta, ci si immerge nel regno algido e ambiguo del “Bausler Institut” (questo il titolo dell’opera presentata nell’ambito di Teatroltre 2016).
Qui si è accolti in uno spazio polisemico: il pubblico può vagare, immergersi nella simultaneità di azioni, che lentamente svelano tutti i protagonisti della vicenda. Le collegiali, le educande create da Jaeggy, nella versione scenica si muovono all’inizio come automi, reiterando e insistendo – in loop sentimentali oltre che fisici – azioni minime o eclatanti.
Lo spazio si moltiplica nei dettagli visivi, nelle lontane video proiezioni, nelle istallazioni che lo fanno apparire quasi come una gallerie d’arte, o una wunderkammer di memorabilia o objet trouvé.
Eppure la drammaturgia si fa stringente, e il racconto si dipana – affidato a voci fuori campo o azioni live – creando una suggestione di straniante fastidio, che ingabbia e quasi soffoca. Il clima claustrofobico della storia, le relazioni tempestose e nascoste, le dinamiche seduttive e distruttive si snoccionalo una dopo l’altra.
E le giovanissime interpreti (quasi tutte studentesse, affiancate da due attrici professioniste complici del progetto: Maria Paola Benedetti e Francesca Gabucci cui si aggiunge Giorgio Donini) hanno energia da vendere nel trasmettere ogni minimo dettaglio umorale del romanzo.
Ecco, l’elemento commovente di questo spettacolo: quella pura adesione a un progetto, quel fare teatro con slancio e passione, quella condivisione profonda – senza remore, senza sovrastrutture – che fa di questo lavoro un evento vero, autentico, trascinante. Bastava guardare gli occhi ardenti, quelle braccia che si slanciavano in aria, quell’avanzare e indietreggiare assieme – come in una parata degna di Pina Bausch – gridando parole vane. Vi è una bellezza, un candore, in questi frammenti assemblati come in una raccolta di fotografie, che spezza il cuore. Si esce con una scorta di bella energia, con la consapevolezza che il teatro – quando è ben fatto, anche se con pochi o nulla soldi – ha davvero il valore assoluto che cerchiamo.
Muovendomi nel percorso scenografico degli urbinati, poi, riflettevo su un fatto. Guardavo quei pochi fari antichelli usati dagli studenti, e mi tornava in mente una questione che si è già aperta, ma ancora non ha trovato soluzioni: ovvero ci sono premi, prestigiosi, che vanno alla “migliore scenografia”. Allora di fatto, magari anche indipendentemente dalla volontà dei giurati, si tende a premiare la scenografia “più bella” che spesso e volentieri è la “più ricca”, ovvero quella che può avvalersi di mezzi maggiori. La qual cosa, ben si comprenderà, è un criterio assai discriminante. Chi fa scenografia, oggi? Chi se lo può permettere? La drammaturgia dello spazio, si sa, è una questione cruciale del Novecento teatrale, ma oggi rischia di declinarsi in un problema di budget. O di genialità, appunto.
E in questo caso, anche se sono tanti da leggere, voglio chiudere l’articolo citando tutte le protagoniste di questa storia: Aurelia D’Alessandro, Federica Foglia, Jessica Fuina, Virginia Gidiucci, Chiara Lavana, Mattia Michetti, Alessandra Romagnoli, Nyke Sama, Angelica Sbrega, Monica Scaloni, Giulia Schiavone, Federica Serra, Daniela Tebaldi, Giada Tonioni e Francesco Zanuccoli. A questo indirizzo, ulteriori info sullo spettacolo e sull’Accademia: per chi volesse saperne di più e per chi avesse voglia di studiare scenografia.
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