Teatro
Hybris secondo RezzaMastrella: breve intervista a ridosso della scena
Ha un titolo potente, perentorio, l’ultima creazione del duo RezzaMastrella al nuovo debutto all’Arena del Sole di Bologna, in scena fino a domenica 13 novembre. Hybris: l’arroganza dell’uomo verso Dio, verso Natura, verso l’Uomo tutto “così in terra, non così in cielo” citando gli autori.
Abbiamo raggiunto i due artisti al telefono per una chiacchierata sulla nuova produzione che ritorna dopo un riassestamento seguito all’esordio luglio scorso al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Leggendo i primi articoli su Hybris colpisce la descrizione di una scena che abbandona gli habitat di teli colorati che ospitavano gli altri lavori. Cosa è cambiato?
Mastrella: Il lavoro ha mosso i primi passi nel 2018 e si è poi dilatato per tutto il periodo cosiddetto pandemico e oltre; mese dopo mese la mia fantasia, lo stimolo fantastico si sono asciugati. Ho creato una scena-frigorifero immersa in una luce fredda, asettica, tormentata da bagliori intermittenti, disseminata di “attrezzi di tortura” diciamo così… E’ stata nella sua veste quasi ospedaliera un riflesso dell’artificialità assurda dei due anni che hanno attraversato la produzione.
In una delle immagini a corredo di alcune pubblicazioni, non passa inosservata una grande porta che sappiamo mossa da Antonio sul palco. Che significato assume?
Mastrella: Abbiamo scelto questo simbolo, una pesante porta di legno che Antonio muove in scena e si fa apertura e chiusura a suo piacimento; è un’asse pesante, picchia a terra risuonando e scandendo un suo ritmo, è meno e più del suo significato corrente, può essere la porta della percezione da oltrepassare, la porta intesa come ingresso di un computer, la porta dell’inferno o anche non avere più alcun senso preciso, come d’altronde hanno smarrito il significato molte parole durante la pandemia. E’ una porta che si è mossa con noi sulla scena per tre anni, fino a diventare in questo nuovo debutto strumento di potere, di accesso o esclusione in base a insondabili criteri di un uomo animato da hybris, e a questa poi inevitabilmente soggetto.
Ritornando sul titolo, che rimanda alla tracotanza dell’uomo verso un potere superiore e alla conseguente punizione che subisce, possiamo immaginare un’inconsapevolezza di questa colpa, specie se ci riferiamo al periodo del distanziamento forzato e del passaporto verde?
Rezza: Il titolo, come spesso accade, è uscito solo alla fine. C’è stata una gestazione molto lunga di questo lavoro, che ha – come sempre – una forte componente inconscia, inconsapevole. Una lavorazione di quasi 4 anni, durante la quale grazie alla presenza di una porta, qualcuno stabilisce chi sta dentro e chi sta fuori, anche dalla scena stessa, attraverso una dinamica di continua apertura/chiusura, che a posteriori richiama certamente ai lockdown, all’isolamento, al “tutti dentro” preconizzandolo con due anni di anticipo. Situazione che anche io ho dovuto subire nel quotidiano assieme alla minoranza degli esclusi dal sociale per essersi sottratti al vaccino. Però non facciamo “arte sociale”, non avrebbe senso lavorare su qualcosa che è già accaduto, un’emozione già condivisa e così tanto raccontata. Ricordo il periodo dei lockdown come una grande prova generale di sottomissione alla tracotanza dei rappresentanti dello stato, qui se vuoi puoi agganciarti al titolo…
Oggi pare esserci una moderata revisione di questa “tracotanza di stato”. Il nuovo governo pare avere un atteggiamento di moderata riconversione delle politiche sanitarie del caso.
Rezza (lapidario): la destra oggi al potere è in piena continuità col governo precedente. La violenza, la prepotenza, sono biologicamente di destra. L’essere umano è biologicamente di destra.
Riguardo al periodo dei lockdown e dei limiti imposti a tutto e tutti, teatro incluso: molti attori hanno declinato i loro lavori in chiave digitale, voi no, come avete vissuto l’isolamento, la sospensione del contatto col pubblico?
Mastrella: Delle proposte “digitali” ci sono state fatte, ma abbiamo preferito lavorare a nuove cose più che tradurre le precedenti in proposte streaming; il lockdown ha appiattito tutto sempre di più sulla tecnologia, che pareva l’unica via per restare vivi, in contatto con gli altri, ma non si è trattato che di un’involuzione, un viaggio all’indietro, all’idea regressiva di subire l’interconnessione permanente, senza alcuno slancio progettuale vero, senza uno sguardo critico sul presente capace di generare. Io in quel periodo mi sono dedicata a un film intitolato La legge, dove ho coinvolto 160 persone, ognuna delle quali ha letto un articolo della Costituzione filmando il proprio animale di casa che idealmente quindi recita. Un lavoro lunghissimo di montaggio audio e video, con la collaborazione di Barbara Faonio; Il film sarà proiettato oggi 12 novembre al Cinema Lo schermo bianco di Bergamo. Per farlo ho usato un’”arma di sterminio” come l’i-phone per esorcizzare il distanziamento forzato e fare qualcosa assieme ad altre persone… Ma anche per “sfatare il mito della distruzione”. (Animali domestici come cani, gatti, canarini, attori doppiati dai loro padroni. Un possibile epilogo tra i tanti alla pet economy. N.d.r)
Tornando al significato della cornice di legno, la porta, i suoi battenti, degli otto attori (tanti davvero) che immaginiamo la attraversino, ne restino al di qua, o al di là, cosa mi potete ancora dire?
Rezza: Ho maneggiato come dicevo questa porta per anni, ne ho fatto alla fine uno strumento di prevaricazione sugli attori in scena, che sono lì per coincidenza di casi e cose; abbiamo iniziato a lavorare con certe persone e così siamo andati avanti, noncuranti poi dell’impegno anche materiale che comporta uno spettacolo corale, in termini anche di gestione. In questo lavoro a un certo punto io mi faccio Stato e decido secondo miei criteri chi sta dentro e chi sta fuori; divento arbitro del destino degli altri, prevarico la libertà altrui. Quello che mai dovrebbe accadere accade in questo spettacolo.
E’ innegabile che i vostri lavori abbiano un forte ascendente sul riso. Intendo che è impossibile non vedere una platea sconvolta da risate fino quasi alla convulsione. Che effetto vi fa essendo voi catalizzatori di dissesti percettivi sul pubblico?
Rezza: E’ sempre preferibile far ridere che far piangere semplicemente per il fatto che il riso non comporta necessariamente partecipazione. Il pianto tocca condividerlo, se invece qualcuno ride il pathos può gestirselo autonomamente, come capita a me davanti a un lavoro ad esempio di Bergonzoni: mi fa ridere e non c’è bisogno di capire e condividere quell’effetto: l’effetto tante volte oscuro della risata, la sua infernalità, come accadeva anche nel teatro di Artaud. L’arte non va condivisa, va subita. Io voglio subire ciò che non capisco, voglio smarrirmi nell’opera, come mi succede davanti a Bacon o Linch, ma anche con Franco Maresco. E poi, ormai mi sono abituato a far ridere (sorride); considero la risata un propellente, quello che produciamo noi almeno, è un riso scomposto, un movimento del corpo che annienta gli stessi organi interni, ne diserta le costrizioni.
Antonio, ho letto da qualche parte che ti dissoci dalla definizione di perfomer. Cosa è successo?
Rezza: Ho semplicemente visto che troppi si definiscono performer, è una definizione che si concede oggi anche ad uno che legge da un podio col microfono davanti a un pubblico. Allora se tutti diventano performer, io preferisco essere chiamato solo Antonio Rezza, che a parte rari casi di omonimia, mi pare più singolare. (qui sorride, n.d.r)
Il rapporto col vostro pubblico oggi? Vi considerate una realtà – nonostante un buon seguito – di nicchia?
Rezza: Il pubblico c’è, ci segue e ci dà molta soddisfazione. Noi ci consideriamo pop, non certo di nicchia, perché chiunque sia vivo è ovvio sia di nicchia, quello è scontato, poi oltre che vivi, noi siamo anche esuberanti (sorride); certo è che occorre sempre rinnovarsi perché si può rischiare di piacere al pubblico, funzionare, ma di non piacersi più, e questo l’ho capito col tempo. Peccato vedere che c’è tanta ammirazione ma non c’è altrettanta emulazione. Tanti – colpevoli anche di averci pensato a lungo – col tempo decidono di “vendersi” alle cosiddette logiche di produzione. Noi sicuramente riceviamo tanta ammirazione, anche perché siamo rimasti liberi, ma davvero sento che c’è poca emulazione, questo mi amareggia.
C’è paura di cadere nell’hybris, pensiamo rispetto alla mercificazione di molti artisti.
Più che un’intervista sul nuovo spettacolo è stata una chiacchierata intima passeggiando al telefono nei dintorni di questo nuovo lavoro che vale la pena andare a vedere, immaginando tra i vari personaggi, un uomo dalle sembianze di Rezza trasportato dentro una gabbia a rotelle: un trasportino di plastica, come un cane o un gatto domestico, o anche come un uomo vissuto in cattività.
Ultimissima, per Antonio: ti senti più popolare o popolato?
Rezza: Popolato, di inquietudini, sempre utili all’irriducibilità che è il nostro vanto. Popolare (pop) resta la nostra arte.
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