Teatro
Heartbreak Hotel – Stanza n° 13. Uno spettacolo di travolgente emozione
Oggi ho avuto la ventura di andare al Festival di ITIndependentTheatre, “Animals for a New Era”. Ero lì per discutere di spazi, città, abitare e teatro. Ma non è di questo che voglio parlare qui, perché a IT è bene andarci (il prossimo anno, poiché l’edizione 2017 si chiude oggi!).
Voglio parlare di uno spettacolo a cui ho assistito dopo il nostro dibattito; uno spettacolo letteralmente travolgente. Quindi, essendone stato travolto, pur non avendo gli strumenti di un critico, non ho resistito e provo a farne una recensione. Lo spettacolo è “Heartbreak Hotel – Stanza n° 13”, un “radiodramma abitabile per un singolo spettatore”, come da definizione degli stessi autori, il collettivo Snaporaz.
La scena è l’ambientazione di una stanza d’hotel in cui lo spettatore, solo, va a sedersi su una vecchia poltrona a fissare l’angolo – formato da due pareti – tappezzate con una anonima tappezzeria. Nella stanza ci sono poi un piccolo comodino su cui c’è una radio, delle carte a terra, un vecchio telefono a disco e una lampada – di luce calda – che squarcia il buio in cui si è immersi.
Lo spettatore/visitatore della camera è accolto dal gracchiante suono della radio che riproduce una canzone di Bob Dylan a cui, a poco a poco, si sostituisce un indistinto vociare che – dopo un’iniziale e voluta difficoltà percettiva – vede chiarire il protagonismo della voce narrante. Voce che, insieme alla coscienza sollecitata dello spettatore e allo spazio della stanza, è la protagonista di questa rappresentazione.
La narrazione è quella di un uomo in preda a una disperata e disperante solitudine, con una vita distrutta da un duplice sanguinario delitto compiuto da un omicida seriale. La voce però non esce da un’unica fonte; si muove, chiede di seguirla, cambia profondità, non consente – sia per quello che dice, sia da dove lo dice – allo spettatore di rilassarsi. Ma lo obbliga a diventare suo sodale confessore, complice della sua intima disperazione; disperazione che tocca il suo apice quando suona il telefono a cui, con una iniziale riluttanza, lo spettatore deve rispondere. Per ascoltare cose che fanno letteralmente ribollire la coscienza, toccando quelle corde profonde che ogni anima vigile sente, in certe rare occasioni, smuovere. E poi continua, nel crescendo, verso il finale in cui entrano in gioco le grandi questioni dell’esistenza: la morte, la pena di morte, ciò che è la morte e il perdono.
Si tratta, ai miei occhi certamente inesperti, di un capolavoro. In venti minuti o poco più (perché questa è la durata dello spettacolo) ho vissuto un’esperienza di un’intensità mai provata prima. Perché i temi ancestrali trattati con maestria smuovono emozioni profonde e intime. Oltre a ciò il testo narrato dalla voce – scritto dal collettivo Snaporaz – è letteratura pura. Un testo “circolare” – che a me ha lasciato aperto un inquietante interrogativo circa la storia e il protagonista – evocatore, nella mia memoria di spettatore, di sonorità altissime: ho ritrovato la pervasività psicologica di Schnitzler, gli echi narranti del moribondo Ivan Il’ic, la visionaria e delirante solitudine dell’Overlook Hotel, il ruvido graffiare di certa (da me) adorata letteratura americana. Il tutto in una dimensione spazio temporale tanto ridotta quanto, intensamente, emozionante.
Insomma, dal mio piccolo angolo, ho avuto la sensazione di avere assistito a un capolavoro. Grazie: opere così prima ti danno un colpo nello stomaco e poi, scuotendoti, ti fanno capire cosa significa essere vivi e coscienti.
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