Teatro

“Grief & Beauty” a Genova, il coraggio di Milo Rau contro l’ultimo tabù

20 Ottobre 2022

Per le tribù dei Nativi Americani la morte non è la fine di tutto ma un momento del lungo viaggio che inizia con la nascita. L’apertura di una nuova fase. Nascita e rinascita. Così come avviene nei cicli della natura. Dal Medioevo in poi, per gli occidentali soprattutto, è il “Memento mori” il richiamo a una paura correlata al mistero. Il filosofo Zygmunt Bauman lo ha definito fenomeno originario e incontaminato, qualcosa che rende l’uomo più fragile davanti alla oscurità del dopo. La paura più grande. Quella che non si vuole mai affrontare perché è come entrare in un buco nero che tutto inghiottisce e nulla restituisce. Questa è anche la fotografia che il regista svizzero Milo Rau ha proiettato su un grande schermo nella sua seconda tappa di “The Trilogy of Private Life”, intitolata “Grief and Beauty”, spettacolo andato in scena al teatro Gustavo Modena di Genova, di cui il teatro nazionale, diretto da David Liviemore, è uno dei co-produttori. Parte di un lungo cammino di ricerca che vede l’artista di origine elvetica, celebre in tutto il mondo, autore di una cinquantina di opere tra drammi, opere filmiche e libri e, attualmente, direttore del Teatro di Gent, intento a scandagliare i punti di crisi della società attuale. La scena riproduce in modo realistico gli interni di un appartamento formato da tre diversi ambienti e disposto lungo la sola parete del fondo davanti al pubblico. Quella foto del buco nero scattata poco tempo fa pare restituire l’angoscia e il malessere che l’uomo contemporaneo prova davanti alla fine della vita. Timori e ansie che hanno trasformato quel capolinea così scarsamente sconosciuto in un tabù vero e proprio. Non è per niente strano quindi che un artista e intellettuale scomodo come Rau abbia deciso di affrontarlo costringendo chi lo vedrà, a confrontarsi con quella parte di ignoto che avvolge la nostra effimera esistenza.

L’immagine del buco nero nello spettacolo “Grief &Beauty” del regista svizzero Milo Rau al teatro Gustavo Modena di Genova (foto di Michiel Devijver)

Il regista elvetico lo fa affrontandolo da un angolo di indagine e visuale che è poi diventato un tabù nel tabù: l’eutanasia. Un corpo a corpo ravvicinato che toglie il velo a ipocrisie e false morali per andare oltre, navigando nella nostra società del malessere. Non è comunque uno spettacolo sull’eutanasia – anche se questa occupa la parte più ampia del dramma – bensì una ricognizione con la lente di ingrandimento di ciò che è diventato il nostro tempo e quello del Pianeta Terra. Questa maledetta ossessione per la scomparsa e il cambiamento subentrato nel tempo nel costume la descrive molto bene uno dei più grandi studiosi del tema, il francese Philippe Ariés (1914) che nella sua “Storia della morte in Occidente, dal Medioevo ai giorni nostri”(1975) fissa l’addio al culto della memoria. Dice Ariés che «nel diciannovesimo secolo era dappertutto presente: cortei funebri, abiti da lutto, estensione dei cimiteri e della loro superficie, visite e pellegrinaggi alle tombe, culto della memoria. Ma questa pompa non nascondeva l’affievolirsi dell’antica familiarità, l’unica veramente radicata? In ogni caso, questo eloquente scenario di morte si è dissolto nell’epoca nostra, e la morte è divenuta l’innominabile. Ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali».

Si evita di parlarne, si sposta il tema o si esorcizza con altri termini e giri di parole, pur di tenerla lontano. Si acquisisce per vie traverse e in modo freddo e distaccato attraverso la visione di pellicole al cinema o in tivù. Un modo anche per fuggire la realtà rifugiandosi nel mondo dei media, di Internet e del virtuale tecnologico. Quasi contemporaneamente ad Ariés, il filosofo Jean Baudrillard nel saggio di culto “Lo scambio simbolico e la morte” osserva come nei fatti, nella nostra contemporaneità la morte venga nei fatti esclusa dal contesto sociale “Perchè al giorno d’oggi non è normale essere morti, e questo è un fatto nuovo. Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile. Non più luogo o uno spazio/tempo destinato ai morti, la loro dimora è irreperibile, eccoli respinti nell’utopia radicale -nemmeno più parcheggiati: volatilizzati” …

Una scena tratta da “Grief &Beauty” del regista svizzero Milo Rau andato in scena al teatro Gustavo Modena di Genova (foto di Michiel Devijver)

E, sempre Baudrillard: “Il culto dei morti va diminuendo. Si parla sempre meno dei morti, si abbrevia, si fa silenzio-discredito della morte. Finita la morte solenne e circostanziata in famiglia: si muore all’ospedale – extraterritorialità della morte. Il morente perde i suoi diritti, compreso quello di sapere che sta morendo. La morte è oscena e imbarazzante – e altrettanto lo diventa il lutto, il buon gusto è quello di nascondere ciò che può offuscare il benessere degli altri. La buona creanza vieta qualsiasi riferimento alla morte”. Così scriveva Baudrillard nel 1976. In una intervista del 1982 a “Critique” un acuto osservatore di costume come Roland Barthes, rilevando le differenze e “dell’opposizione tra il corpo giovane e il corpo vecchio e, per così dire della rimozione sociale del corpo vecchio… dalla straordinaria estensione del commercio dell’abbigliamento per i giovani… e la regressione dei vestiti adatti agli anziani” ebbe a sottolineare come “tutto questo raggiunge quella specie di cancellazione generalizzata della morte che segna la nostra società in modo abbastanza tragico, e di cui del resto i sociologi si preoccupano. Cancelliamo, censuriamo, rimuoviamo la morte, la priviamo a tal punto della sua simbologia che ci viene sempre più difficile dialettizzarla” (in “Scritti”, 1998)

Insomma non solo non ne vogliamo parlare ma la teniamo distante evitando così di farci i conti. Questo spostare e cancellare di continuo è segno di una società anestetizzata nel suo presente, che ha difficoltà ad assumere con coraggio decisioni che possano cambiare un deleterio status quo. Chiudere gli occhi davanti alla morte vuol dire anche chiudere gli occhi alla vita: capire quali sono le emergenze reali di una collettività e i rischi di un possibile azzeramento o cancellazione dello stesso genere umano.

A caccia dei punti di rottura e di malessere del nostro vivere Milo Rau ha affrontato questo tema con coraggio assumendo allo stesso tempo un distacco quasi brechtiano nell’affrontare il tabù della morte e del lutto fino a farlo apparire nudo. E’ dissacrante tutto questo? No. E’ necessario. Riuscire a far aprire gli occhi, leggere, vedere e capire quanto accade realmente attorno a noi è segno di una grande pietas. La stessa che pervade tutta la pièce, poco spettacolare è vero, dove si narra – più di rappresentare – a tratti con una fissità da miracle play contemporaneo, eppure urgente e necessaria per la chiarezza con cui vengono evidenziati i punti di fragilità.

L’attore Gustaav Smans viene accudito da un altro attore in una scena di “Grief &Beauty” rappresentato all’interno del cartellone del Teatro di Genova (foto di Michiel Devijver)

In “Grief &Beauty” Rau ci conduce passo per passo dove è entrata la sua ricerca. Si parte dal microcosmo, cioè dal proprio territorio, il comune di Gend, per raccontare una storia che è quella poi di tutte le città, di tutti i paesi del nostro Occidente. Qui è l’incontro con uomini e donne straordinariamente normali che sciorinano pezzi di storie, le loro, ma non solo (sono gli attori e attrici Arne De Tremerie, Anne Deylgat, Princess Isatu Hassan Bangura e Gustaaf Smans). Su tutte è centrale la figura di Johanna B., una anziana e determinata signora che ha scelto l’eutanasia a 85 anni per non voler continuare a sopportare il dolore. Il volto sereno e un dolce sorriso illuminano il volto proiettato sull’enorme schermo che accoglie gli spettatori mentre prendono posto a teatro. Impossibile non lasciarsi conquistare da quello sguardo, gli occhi luminosi dietro civettuoli occhiali che fanno da pendant agli eleganti orecchini. L’incontro tra Milo Rau e Johanna è il cuore della ricerca compiuta dal regista assieme al suo team nell’ambito della seconda puntata di “The Trilogy of Private Life”. La donna ha voluto partecipare al lavoro decidendo, non solo di dare il consenso fino alla sua fine alle riprese della troupe cinematografica, ma anche donando pezzi di arredamento della sua casa che poi saranno utilizzati proprio nell’allestimento scenografico della pièce. Tra quegli oggetti anche la pendola a colonna che si intravede mentre Johanna parla dallo schermo e si rivede nel suo “doppio” a sinistra della scena teatrale con il movimento continuo e oscillatorio di entrambi: quasi un tempo che sfida se stesso. La scelta di Rau è per l’essenzialità. Tutto si svolge all’interno di questo appartamento dove gli attori si muovono a passi misurati, con rispetto e riverenza per uno spazio che testimonia una lunga vita vissuta. La violoncellista Clèmence Clarysse introduce allo spettacolo eseguendo le note melanconiche della struggente aria finale di “Didone e Enea” di Henry Purcell. Ogni oggetto in quell’appartamento ricostruito sul palcoscenico ha il suo posto e richiama momenti di intimità. Gli stessi attori presi dalla vita reale intessono la trama di un racconto a più tessere.

Una scena in cui l’attore Gustaav Smans viene visitato da un medico in “Grief &Beauty” del regista Milo Rau (foto di Michiel Devijver

Pezzi di vita tra dolore e nostalgia in cui la telecamera, inesorabile nell’inquadrare i volti li avvicina ancor più al pubblico (la drammaturgia è di Carmen Hornbostel). Non c’è dibattito né contraddittorio ma un lungo piano sequenza fa ruotare le storie come satelliti attorno a quello di Johanna B. che parla di una esistenza durante la quale è stata molto amata dai cittadini. Una città dove ha speso il suo tempo impegnandosi anche nell’associazionismo. E ora il momento dell’addio e del distacco che Johanna vuole pubblico. Il momento del trapasso sarà nel suo letto, a casa sua, circondata dai più cari, amici e parenti. Quasi a specchio la vicenda dell’ultrasettantenne diventato attore in età avanzata, Gustaaf Smans, sul letto, attorniato dagli altri attori che replicano simbolicamente in scena quello che accadrà realmente a Johanna. Aiutano Gustaaf a farsi la doccia, lo assistono mentre si cambia. Anne evoca la fine di un amore e l’incontro con il teatro. Sul palcoscenico invece Arne ricorda quando da piccolo finse di morire recitando “Il Piccolo principe” di Saint-Exupéry e della madre che si diede all’alcolismo. Infine Princess, originaria della Sierra Leone narra del padre che non la riconosce come figlia. Sono racconti individuali che si intersecano a quello centrale prendendo anche altre vie di fuga. Storie reali, i monologhi si susseguono uno dopo l’altro in una atmosfera di condivisione con Johanna che ha voluto per sé l’eutanasia come scelta di libertà: un segno di solidarietà per le sue scelte. Questo fatto e l’affetto mostrato da chi sta accanto a Johanna (che ha voluto bevessero tutti dello champagne) distesa sul suo letto con lenzuola candide e disegni neri, mentre la telecamera filma il suo volto accarezzato con affetto da diverse mani, indicano una nuova centralità dell’atto finale della vita. Sono un atto di amore e di bellezza. La telecamera è davanti al volto agonizzante di Johanna a fino a registrare il suo ultimo sorriso che sfuma in una smorfia sardonica. La morte torna ad essere qualcosa che ci riguarda tutti. Inevitabilmente.

L’attrice Princess Histau Hassan Mangura mentre racconta della sua giovinezza in Sierra Leone in “Grief &Beauty” del regista Milo Rau (foto di Michiel Devijver
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