Teatro
Giulia Lazzarini straordinaria Emilia (ma con qualche dubbio)
Diciamolo subito: vedere in scena Giulia Lazzarini, in Emilia di Claudio Tolcachir, è un piacere per gli occhi e per l’anima. Gentile, lieve, intensissima, dolce, raffinata, presente, aderente: basta seguire i suoi movimenti della mano destra, cogliere con attenzione le sue espressioni del viso, i suoni, il modo in cui porta la battuta per avere lezioni infinite di teatro. Con lei, con questa grande signora del teatro, quattro attori di grandissime virtù: Pia Lanciotti, languida e intensa; Sergio Romano, nevrotico ed esplosivo; Josafat Vagni, che si conferma ogni prova di più e Paolo Mazzarelli, forse non sfruttato al meglio, ma di grande incisività.
Sono loro a gestire il carosello melodrammatico, sempre sospeso tra memoria e immaginazione, tra ricordo e sogno, imbastito dall’argentino autore e regista. E lo spettacolo funziona, ammalia, piace, commuove il pubblico che tributa un lungo applauso. È un momento di bel teatro, proprio perché efficace, alto nella sua semplicità, lineare nel suo dipanarsi, che si porta dietro la lezione di Tennessee Williams o di certa drammaturgia scandinava passata e presente.
Un teatro fatto di elementi immediati – l’attore, il testo, le relazioni – che avvolge e forse commuove. Soprattutto se ruota attorno a un cardine come Giulia Lazzarini, che non fa mistero dei suoi anni, della sua infinita storia teatrale.
Recentemente, a lezione, mostravo ai miei allievi la celebre edizione di Elvira o la passione teatrale, di Strehler, con Lazzarini che è una meravigliosa Donna Elvira in divenire: resta impressa quella vocina tenue e intensissima, pura come un germoglio di grano che si fa strada nella terra e finalmente cresce alla luce e al sole.
Il Teatro di Roma dunque ha fatto bene a investire su questa meravigliosa e ritrovata star, cucendole attorno uno spettacolo che è ben più di un omaggio, di una sterile serata d’onore, ma dimostra come si possa essere giganti in scena semplicemente con un sussurro, con una grazia, un candore, un rispetto antichi. La maestria che Lazzarini porta ancora in teatro è proprio quella della sapienza rispettosa, di una modestia sconfinata che quasi sembra scusarsi di tanto talento. Senza prosopopee o divismi, senza trombonismi o effettacci: è la “vecchia scuola” direbbe Winnie. E per fortuna possiamo assistere, ammaliati ed emozionati, a tanto teatro. Bene le rispondono tutti gli altri interpreti, capaci di mettersi in sintonia con la classe naturale di Giulia Lazzarini. Merito anche, dunque, della regia di Tolcachir, che amalgama e orchestra il gruppo.
La cosa strana, per quel che mi riguarda, di questo Emilia è che mi è piaciuto (e anche tanto) ma non mi ha convinto del tutto. È possibile? Sono io schizofrenico? Nel consenso generale, allora, provo a spiegare cosa mi ha lasciato freddino. E per spiegare mi corre l’obbligo di riassumere la trama, cosa che detesto fare. La situazione vede una donna ricordare – o forse rivivere o ancora immaginare – un momento della propria vita. Capiamo che la donna è in carcere e quel che rivive o ricorda è il “fatto” che lì l’ha portata. La troviamo dunque in un nucleo familiare: è stata, molti anni prima, la “tata” dell’uomo ormai adulto, che ora ha moglie e un ragazzone come figlio. La donna entra nella casa della famiglia, per strani equilibri interni vi rimane. Di colpo, però, torna l’altro, ossia l’uomo del passato, il padre naturale del ragazzo. E il trio va in crisi, tanto che il marito ucciderà la moglie che se ne vorrebbe andare. Possiamo presumere che l’anziana tata Emilia si sia addossata la colpa dell’omicidio e per questo sia in carcere.
Ecco, riassunto malamente, il plot.
Il guaio allora sono i personaggi che a me non convincono. Non per come parlano (scrive bene, Tolcachir) ma per come sono. Il marito è legato a un’idea di famiglia antiquata, ormai inaccettabile: forse per aver avuto un’infanzia difficile, lo apprendiamo dalla tata, di fatto sogna di avere “una moglie felice”, un “figlio che si scopa tutte le ragazze”, e addirittura auspica di “fare colazione tutti insieme”, roba che nemmeno Antonio Banderas al Mulino bianco. È talmente ossessionato nella sua nevrotica esternazione di felicità che non vede altro. Ovviamente non regge, si sente minacciato dal ritorno dell’ex. E quest’ultimo, poi, maledetto e trascurato quanto basta, non appena sfiora con un dito l’ex moglie la tramuta da assente e distratta catatonica in una virago. La donna, figura del tutto opinabile nella sua inutilità, passa dall’accettazione passiva del marito entusiasta, alla totale perdita di controllo di sé non appena ritrova la mano maschia dell’ex. Il figlio poi, masturbatore compulsivo, sfoggia una immaturità che meriterebbe assistenza sociale.
Insomma, figure tagliate con l’accetta, manierate, incapaci di un’adultità serena, di qualsiasi consapevolezza. Il fatto poi che la protagonista Emilia, con cui il pubblico evidentemente solidarizza, arrivi a coprire il femminicidio per difendere quell’imbelle marito mi sembra piuttosto grave. Di fatto, il pubblico è portato – con Emilia – a perdonare, quanto meno a tollerare, l’assassinio “per troppo amore”. E quella donna, moglie e madre, che carattere ha? Che dignità ha?
Avremmo sperato, addirittura, che fosse lei a uccidere lui, oppure Emilia a massacrarli tutti: anche perché il gioco degli affetti della prima parte (i tre della famiglia sono un continuo toccarsi, abbracciarsi, scherzare, fare giochini, inseguirsi, ridere) è talmente esasperato e esasperante – nel suo ostentato volontarismo – che avremmo anche giustificato una carneficina. Invece no: l’uomo buono che vuole la famiglia felice quando si scopre incapace uccide, la donna alla fine preferisce il maschio maledetto e dovrà pagarla, il figlio resterà solo e immaturo. Un’ode alla famiglia tradizionale?
Forse Claudio Tolcachir non ha voluto consapevolmente sciogliere i dubbi, ha accuratamente lasciato aperto un dubbio, anche temporale. Quando avviene tutta la vicenda? Oggi o molto tempo fa? Sono personaggi veri? Sono proiezioni dell’anziana donna ormai folle? Sono travisamenti del reale?
E difatti, il lungo prologo – sospeso a lungo tra memoria e immaginazione – dà adito a doppie o triple interpretazioni. Probabilmente Emilia è una barbona, una sbandata, costretta a vivere sotto i portici con il cane Rocco (lo racconta con dovizia di particolari) e nella sua allucinata esistenza mescola ricordi e fantasie. Chissà, forse è in carcere per altro. O forse non è nemmeno più in carcere. È solo un gesto, un soffio, un aggraziato sussurro, un sogno. Un personaggio sospeso in un vuoto siderale di solitudini antiche, in un sorriso umano e caldo che non si spegne: proprio come quello dolcissimo di Giulia Lazzarini.
(I ritratti della foto di copertina sono di Futura Tittaferrante)
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