Teatro

Giornata mondiale del teatro: è qui la festa?

27 Marzo 2018

Si festeggia, ma che c’è da festeggiare?

Non voglio fare il solito noioso, ma la Giornata Mondiale del Teatro, promossa dall’ITI Unesco, che si celebra oggi, sembra un po’ una presa in giro, almeno da noi.

Altrove si festeggia, veramente, quest’arte antica, ricordando il suo significato sociale, politico, culturale: la si celebra perché ha senso e valore, poesia e bellezza, perché terreno di incontro e discussione, oggetto di studio e di condivisione.

E in Italia? Mah, siamo sempre alle classiche nozze coi soliti fichi secchi.

Inutile dire che nella recente campagna elettorale nessuno abbia mai nominato la parola teatro (appena appena quella “cultura”), se non in accezione negativa: il teatrino della politica ne è l’esempio eclatante.

Al Teatro Romano di Ostia Antica

Eppure il teatro, nonostante le cosiddette politiche culturali, resiste come non mai. Forse questo, questo sì potremmo davvero festeggiarlo: resiste nell’ardore, nella passione, nella sapienza di chi lo fa. Resiste in chi vuole prendere parte al rito, anche se non professionalmente: c’è una crescente, bellissima richiesta di partecipare al gioco teatrale, oggi più che mai. Sono tanti quelli che vogliono entrare nella dinamica della scena: non solo nelle compagnie amatoriali, che pure vivono in tutta Italia, ma si moltipicano le domande ai laboratori, ai workshop, ai seminari che sempre più spesso coinvolgono semplici “cittadini”, spettatori o attori di ogni tipo, senza distinzione (è il caso di dirlo) di “razza, religione, colore”.  Il Teatro, dunque, si riafferma come pratica inclusiva, condivisa, socializzante.

E resiste anche nel nocciolo duro degli spettatori, che non sono pochi e che ogni sera affollano le sale, con buona pace di quanti, da sempre, ne decretano la fine: “il teatro è morto, il teatro non è più quello di una volta…”. Beh, non è vero. Diciamolo e facciamocene una ragione. Anzi: il teatro è forse l’ultimo, o comunque uno dei pochi, baluardi di civiltà e democrazia che ci resta.

È anche un comparto, è un’economia – anche se prima o poi su questa cosa dell’impresa culturale dovremmo intenderci: ha una sua specificità, un teatro non produce mozzarelle, con tutto il rispetto per i prodotti caseari. È un mondo dove in tanti, giovani e meno giovani, si trovano e ri-trovano, si capiscono e si osservano vivere. E lavorano, o provano a farlo.

Ethica (Paris) regia di Romeo Castellucci, foto di Guido Mencari

 

Il livello del teatro italiano è alto, con vette altissime. Abbiamo artisti celebrati in tutto il mondo, abbiamo attori e attrici che ogni sera regalano il proprio talento nelle tante sale del nostro Paese (la qualità, grazie alle molte ottime scuole che abbiamo, si è molto alzata), abbiamo tecnici raffinatissimi in ogni settore.

Eppure, eppure sembra che nulla si radichi, che le istituzioni debbano vivere sempre sull’orlo del baratro, che la coperta sia comunque troppo corta per accogliere tanta vivacità e creatività. Perché? Non si sa.

I soldi sono finiti, si sente dire. È il vecchio adagio: quel “bambole non c’è una lira”, declinato in versione pubblica. È vero? Sono proprio finiti? Io non ci metterei la mano sul fuoco, viste certe spesucce allegre che i nostri governi non si sono fatti mai mancare.

Però tocca allo Stato garantire il livello culturale del paese. Su questo – almeno per me – non si discute. Il teatro deve essere finanziato, e finanziato bene. Non è una questione di incassi, di botteghino, di investimenti privati: è il benessere dei cittadini che è chiamato in causa. È la loro/nostra partecipazione alla vita pubblica attraverso il linguaggio del teatro: una questione di crescita (o di tenuta) di civiltà, uno sguardo che si apre verso i prossimi decenni. Ci pensiamo alla nostra società da qui al 2028?

Il teatro forma (anche) i cittadini di oggi e di domani. Per questo va sostenuto, incoraggiato, condiviso. Al di là del fatto estetico – a noi critici piace tanto litigare sulle estetiche, sulle poetiche – c’è la forza politica e sociale di questa pratica culturale.

Chissà se il nuovo ministro, chiunque sarà, vorrà tenerne conto. Allora sì, ci sarebbe da festeggiare. Se il governo volesse raddoppiare i fondi pubblici per sostenere l’opera, la danza, il teatro, la musica, il circo. Se volesse investire davvero sullo spettacolo dal vivo: magari le città cambierebbero volto, magari anche il turismo (perché poi i nostri amministratori ci tengono al turismo culturale, no?) se ne renderebbe conto; magari le periferie sarebbero un tantino più vivibili. Basterebbe poco, in fondo per cambiare le cose, per rilanciare il sistema, per smuovere davvero le acque stagnanti in cui rischia di affondare questo Paese in mano a quel Teatrino della politica.

Così, per questa festa, mi trovo a ricordare Ortega y Gasset, quando scriveva: «Questo è formidabile, signori. Questo comunissimo evento che accade quotidianamente in tutti i teatri del mondo è forse la più strana, la più straordinaria avventura che capiti all’uomo». Straordinaria, invero, e viva quanto mai.

(nella foto di copertina la cavea del Teatro Olimpico di Vicenza)

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