Teatro
Scortati da Gifuni per le borgate di Pasolini
Declassato ad accattone dopo la parabola discendente dei Lehman Brothers, Fabrizio Gifuni legge al Teatro Franco Parenti cinque episodi di Ragazzi di vita per la sola serata del 7 Giugno. Un percorso linguistico che dal declamato ronconiano della Lehman Trilogy – terminata al Piccolo il 31 Maggio – lo ha condotto al dialetto romano. Il suo dialetto. E quello di Riccetto, Picchio, Piattoletta: vite violente con nomi da fiaba, protagonisti di storie mai accadute che Pasolini forgia con la materia prima della realtà stessa.
Questi maschi adolescenti sono per il poeta «squadre ordinate di fiori nel caos dell’esistenza». Il suo sguardo li segue da lontano come irresistibili oggetti del desiderio, invidiando l’irriflessiva ma autentica sensualità del loro agire. Perché la loro spontaneità è vita; li rende saggi, più adulti del poeta stesso, da parte sua condannato a una specie di inazione, a non poter varcare «il confine tra l’amore per la vita e la vita».
Come in una versione di borgata di Morte a Venezia, il poeta è stordito dalla contemplazione di questi ragazzi, e tenta infine di camuffarsi, di mimetizzarsi nello sfondo di periferia che gli sarà fatale, per cercare di vivere – per fare il verso a Emmanuel Carrère – “vite che non sono la sua”. Non c’è cronaca in Ragazzi di vita. Non ci sono nemmeno politica o morale: solo la tensione verso un linguaggio estraneo sia all’autore sia al lettore.
Così la frustrazione di Pasolini diventa esistenziale e porta all’eterogeneità stilistica del romanzo, con forme ibride di discorso diretto e indiretto. E se nel diretto riescono a farsi largo i borgatari, nell’indiretto si sente il timido intervento di un personaggio estraneo, di un borghese infiltrato: è la voce del poeta.
Lontano da ogni realismo e neorealismo, Pasolini trova le parole e le cose della vita a partire dai bisogni primordiali più incalzanti dei suoi vinti. «Prima la pancia piena, poi la morale» direbbero i delinquenti brechtiani: un assioma che struttura lo stadio iniziale dell’esistenza, unica norma di un mondo ancestrale pronto a riemergere in ogni momento, con la prima fame.
Insieme alle fragilità, Pasolini mette per iscritto l’irrimediabilità del nostro esserci, il modo che abbiamo di scolpirci esattamente come dobbiamo essere, senza scampo: «Come un fiume, che – nel meraviglioso stupefacente suo essere quel fiume – contiene il fatale non essere alcun altro fiume», riassume nella Poesia in forma di rosa. Di nuovo il dramma di non essere altro: quel tormento di Pasolini che rende tanto dinamica la struttura di Ragazzi di vita, i cui personaggi non vanno amati per ragioni sociali, ma per l’incorrotta vitalità della loro «cruda gioventù».
Tutto questo è portato in scena da Gifuni con l’esecuzione di chi non si immedesima ma comprende. La sua lettura è più drammatizzata che per lo Straniero della scorsa stagione – sempre al Parenti -, con salti vertiginosi dalla prima alla terza persona: più contemplativo nelle pagine descrittive, feroce e primitivo negli scambi tra i personaggi.
Dopo gli altri testi letterari affrontati da Gifuni (oltre a Camus, Gadda e ancora Pasolini con le regie di Giuseppe Bertolucci) e il passaggio attraverso la Lehman Trilogy, il suo lavoro di millimetrica sovrapposizione tra registri gli permette di affrontare Ragazzi di vita dalla giusta distanza: intenso, ma asciutto e commovente senza patetismi.
Sala Grande al completo e solito trionfo per l’attore, adorato dal pubblico del Parenti specie per questa forma di spettacolo, in cui l’ascolto è supportato solo da un’esile ma eloquentissima ossatura di movimenti.
Imperdibile l’audiolibro Emons con la lettura integrale del testo: scortati da Gifuni per oltre nove ore di borgate.
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