Teatro

Giardino delle Esperidi, il teatro al tempo degli alberi maestri

4 Luglio 2023

Alberi. “Ne parliamo appena e il loro nome ci sfugge”. Incisivo incipit quello di Emanuele Coccia per aprire “La vita delle piante” (Mulino 2018), libro imperdibile che non ci si stancherebbe mai di leggere. Scrittura senza fronzoli, diretta. Non illudiamoci però. Abbiamo molto da imparare dalla vita vegetale come sostiene il professore associato all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. Quindi ben venga il fatto – anche in considerazione dei tempi di crisi climatica in cui viviamo- che la vegetazione e le piante entrino con prepotenza nel palinsesto di un festival teatrale, in cui si privilegia il rapporto diretto con lo spettatore. Così come accade a Campsirago, avamposto di cultura appollaiato nelle parti alte del Colle Brianza, riconosciuta e stimata residenza d’arte, luogo eletto di un drappello di teatranti sensibili ai temi della conoscenza ambientale, impegnati nello sviluppo di tecniche e ricerche nel campo delle metodologie teatrali. In quello che è “Il Giardino delle Esperidi”, diretto da Michele Losi, un festival – diciannovesima edizione, dal 23 giugno al 2 luglio- votato ad essere manifestazione popolare, decentrato in una decina di borghi, alcuni miracolosamente intatti e risalenti all’epoca medioevale, e dove si alternano nella programmazione momenti di ricerca a intrattenimento. Spettacoli ad alta infiammabilità e turba coscienze come “Aldo è morto”, notevole atto unico di Daniele Timpano si alternano a incursioni nella natura, come la “Capra” del duo Bocchi e Scardocchia che per scelta di vita e lavoro è andata a vivere in una cascina di Recanati, dove ha l’abitazione e l’atelier di teatranti. Folgoranti pièce in cui si sperimenta il teatro di figura con il linguaggio beckettiano, vedi la poetica “Signora Rossetta” de Is Mascareddas con l’attenta regia di Anna Fascendini. E poi tutti quei lavori e performance in cui si opera un dialogo costante con la natura. Sono le marce nelle foreste, i cammini all’alba o al tramonto in sentieri che vanno per monti e colline, spettacoli in cui Shakespeare trova casa in una ricostruzione eccentrica en plein air o la celebre fiaba di Hans e Grethel, costruita nel verde per originali percorsi narrativi. E poi azioni che sono studiate come perfette costruzioni teatrali, con il supporto della tecnologia,nelle quali gli spettatori diventano essi stessi attori in prima persona.

Inizia la performance “Alberi maestri” di Michele Losi in un bosco a Ello in Monte Brianza (foto Marco Vitali)

Accade in “Alberi maestri” performance itinerante che fonde racconto, musica e suoni in un percorso sensoriale ad alta intensità (al debutto il 24 giugno). Un evento teatrale in sé, costruito in modo raffinato, che pone subito lo spettatore/camminatore davanti alla realtà della vegetazione senza filtri intermedi. Sperimentando direttamente il significato e le profondità di relazioni di un continente per la maggior parte inesplorato e sconosciuto come quello degli alberi. Quello solidale e intelligente in cui crescono fitti dentro una marcita ad Ello, paese della Brianza lecchese. Un habitat unico, dove da tempi immemorabili si favorisce la crescita di piante e arbusti in tempi di bassa temperatura in un zona irrigua, dove l’acqua proveniente dal Monte Brianza bagna il sottobosco scorrendo con riflessi argentini, inseguita nel suo cammino da svolazzanti farfalle colorate di blu, ora ristagnando e affiorando dal sottosuolo: quasi ribollendo sotto il muschio per poi emergere in superficie manco fosse un paludoso bayou della Louisiana. Camminando in silenzio, seguendo il suggerimento di marciare in fila indiana, a un metro di distanza l’uno dall’altro, ricalcando le orme di chi precede, gli spettatori/escursionisti guidati dal racconto che si ascolta nelle cuffie in radiofrequenza – indossate prima della performance- e investiti da un accattivante e meditativo flusso sonoro seguono uno spettacolo inedito, a turno come spettatori e attori: assorbendo, per due ore circa, informazioni e storie incredibili sul mondo della vegetazione guidati con mano discreta ma precisa dal suo ideatore Michele Losi che, assieme a Sofia Bolognini, ne ha disegnato la drammaturgia. Losi, avanzando tra alberi dal fusto altissimo indica particolari, suggerisce il modo di agire in rete di queste piante, e come queste rispondono ad aggressioni esterne, la solidarietà e la comunicazione. Si passa intorno, si misurano con lo sguardo i grossi tronchi, si sfiorano gli arbusti… eppure gli alberi sembrano invisibili.

Istruzioni durante la marcia “Alberi maestri” ideata e coordinata da Michele Losi in una marcita ad Ello (Foto di Alvise Crovato)

“La scelta di stare ancorate al terreno ha condizionato ogni successiva trasformazione del corpo delle piante, il quale si è evoluto con soluzioni così diverse dagli animali da essere per noi pressochè incomprensibile. Il risultato finale è che le piante non hanno una faccia, degli arti, o in generale, una qualunque struttura riconoscibile che le avvicini agli animali, e questo le rende praticamente invisibili. Le riteniamo una mera parte del paesaggio: vediamo ciò che comprendiamo, e comprendiamo soltanto ciò che è simile a noi. Da questo dipende l’alterità delle piante” (Stefano Mancuso, “Plant Revolution”, 2017).

Invisibili ma presenti. Saldamente radicati nel suolo, gli alberi sembrano sentinelle di un mondo a parte. Che poi è anche il nostro e noi stessi apparteniamo a loro. Gli alberi disegnano la vita, influenzano lo scorrere del tempo, l’alternarsi delle stagioni…

Ancora Coccia in “La vita delle piante” osserva che “la radice è ciò che consente alla pianta di coinvolgere in questa mediazione cosmica la terra stessa nella sua dimensione planetaria. Se quest’ultima gira fisicamente attorno al sole, è però nelle piante, e grazie a esse, che questo legame produce vita, ovvero materia capace di esistere in forme sempre inedite. Le piante sono la trasfigurazione metafisica della rotazione del pianeta attorno al sole, la soglia che trasforma un fenomeno puramente meccanico in evento metafisico. O meglio, esse fanno abitare il sole sulla terra: trasformano il respiro del sole – la sua energia, la sua luce, la sua ragione – nei corpi stessi che abitano il pianeta, fanno della carne vivente di tutti gli organismi terrestri una materia solare…”

Il viaggio, collettivo e individuale, è finito. Si esce dal bosco in silenzio, risalendo verso la tappa iniziale. Un po’ è come uscire dall’acqua dentro quale si è galleggiato per un tempo indefinito: gli occhi semichiusi alla luce e il cuore in tumulto.

Fiori di camomilla nel bosco di Ello durante la marcia “Alberi maestri” di Michele Losi (foto Marco Vitali)

Il Giardino delle Esperidi” ama la natura e ha un’anima popolare. Non dimentica come il destino degli uomini sia intimamente connesso a quello della terra. In un tempo più lontano, le comunità di queste parti, tra pozze d’acqua, colline e boschi, campi di verde trifoglio, piccoli campanili e chiesette, attorno alle quali si raccoglievano le case di contadini e allevatori, erano forse più solidali dei nostri giorni rigurgitanti invidia ed egoismo. E’ in un borgo simile, lindo e ordinato, a Valgreghentino, non più di 3500 anime, che è nato il progetto dell’italo francese Floriane Facchini, “Cucine(S)” che ha curato l’idea, i testi e la regia (scenografia di Roberta Pracchia, pittura e calligrafia di Geoffroy Pithon con le foto di di Fabien Tijou e Clément Martin, direzione Manu David) della produzione che ha aperto in modo singolare il festival di Campsirago. Facchini ha sondato e mobilitato gli abitanti per dare vita nella piazzetta davanti alla chiesa di San Giorgio, dal selciato costruito con pietre di fiume a un grande e democratico banchetto partecipativo. Tante le tavolate imbandite a festa, agghindate con fiori ed erbe profumate della campagna. Mentre i bambini scorrazzavano da un lato all’altro della piazza, paesani e ospiti del festival prendevano posto nelle tavole ingombre di boccali di refrigerante acqua menta e limone e teglie con cibi semplici e gustosi.

Le tavole di “Cucine(S)” nella piazza di Valgreghentino dove tutti contribuiscono con cibi portati da casa (Foto Alvise Crovato)

Ognuno portava con sé qualcosa cucinato a casa secondo le proprie tradizioni culinarie. Dalle patate in crosta con il formaggio alle saporite “cassoeule” (ognuno con la sua personale ricetta di verza e carne di maiale). Buon cibo e qualche bicchiere di vino hanno fatto sciogliere timidezze e la festa ha decollato tra risate e nuove amicizie con intrecci di storie personali e memorie collettive. Poi foto poster delle persone presenti e/o intervistate dalla Facchini, testi come poesie che passavano di mano assieme alle ricette… Immancabile e perfetta la musica. Tradizionale naturalmente A base di flauti di pan di tutte le dimensioni e con trentacinque musicisti di tutte le età. Sono i “Pìcett del Grenta”, cioè i pettirossi del fiume che scende da una montagna ai cui piedi si trova Valgreghentino. Contenti e fieri del loro essere lì a portare sorrisi e far cantare. Diretti dal maestro Gabriele Bolis, dimostrano bella maestria e abilità nel suonare questi rari e difficili strumenti a fiato con i quali intonano canti popolari brianzoli ma anche di altre regioni italiane, valzer e tanghi e persino canzoni napoletane.

E dedicato a un pubblico ampio e coinvolto anche dalla bravura degli attori (Renato Avallone, Camilla Barbarito, Laura Pozone e Alessandra Sampaoli) “Il fanciullino”, scritto e diretto da Renata Chiaravino, in cui raccontano le verosimili vicissitudini di un gruppo di uomini e donne sulla soglia degli ottanta anni che non si arrende alla vita che passa e continua a frequentare le balere in cerca di amicizia e possibili amori. Teatro anche per bambini con “3 Pigs” da un’idea di Anna Fascendini e per la piccola infanzia, “MiloeMaya”. Per tutta la durata del festival si è potuto partecipare a performance itineranti come “Humana Foresta”, e all’alba l’intrigante “Sun Followers” dell’olandese Sjoerd Wagenaar. Oppure quella proposta dal collettivo Azioni Fuori Posto che hanno improvvisato un’atto itinerante sulle rive del lago di Olginate. Un gruppo di danzatori e percussionisti che portandosi dietro un po’ di folla indica e sottolinea con la gestualità, i passi di danza e il ritmo dei tamburi le particolarità del paesaggio e la relazione con la presenza umana.

I “Pìcett del Trenta” mentre eseguono i motivi tradizionali ma anche canzoni napoletane (Foto Alvise Crovato)

Insomma c’è posto per tutti. Sì davvero, se si vuole capire cosa è amare il teatro si deve andare almeno una volta al “Giardino delle Esperidi” dove il paesaggio si coniuga con la scena e si possono seguire spettacoli come “Spezzato è il cuore della bellezza” di Dammacco/Balivo interpretati da una signora della scena come Serena Balivo. Contemplazione, gioia ma anche energia.
E meno male che c’è anche Daniele Timpano (compagnia Frosini/Timpano) a ricordarci nel cortile di Villa Sirtori (del sedicesimo secolo) accanto al lago di Olginate, quanto il teatro civile è necessario per non finire completamente narcotizzati da decenni di piombo televisivo berlusconiano. Il suo “Aldo è morto”, attorno al sequestro e alla morte per mano delle Brigate Rosse, dello statista Aldo Moro, è un atto d’accusa forte e inesorabile rivolto direttamente alle nostre coscienze. L’affabulazione parte in leggerezza per acquistare sempre più velocità nello svelamento di particolari “dimenticati” di una tragedia miserabile. Il flusso è veloce e un po’ storto -come le coscienze di cittadini dimentichi- nell’atto di offrire importanti verità celate e dimenticate dal potere. Instilla dubbi, lascia intravedere verità sottaciute o solo accennate, magari derubricate nel sonno della storia che nel Bel Paese è bello pesante. Piccoli dubbi, ma che nascondono domande grandi come montagne. Sembra di stare dentro un fumetto, un noir di Nathan Never che si agita rincorrendo i colpevoli in fuga. Daniele Timpano è un torrente in piena. Non ha bisogno di ricordare i dettagli di una storia che in fondo è stata rimossa dalle coscienze come qualcosa di scomodo. Poco conveniente parlarne. Eppure…

Daniele Timpano durante il suo travolgente monologo “Aldo Morto” sul rapimento i Aldo Moro (Foto Alvise Crovato)

Quando accade Timpano è un bambino, non può ricordare ciò che non ha vissuto, ma gli interrogativi ci stanno tutti lo stesso e agitano il cuore e la testa. Con lui anche una Renault 4 rossa, una piccola auto radiocomandata che lo segue mentre misura a grandi falcate il palcoscenico… Timpano mette tutti sullo stesso piano, togliendo l’aura di sacralità a quello che nonostante gli anni passati non è ancora realmente stato oggetto di indagine imparziale e approfondita, per mettere a fuoco uno dei misteri dell’Italia degli anni del terrorismo. E in questo Timpano è senza pietà: ne ha per tutti, brigatisti, politici del tempo, giornalisti. Non risparmia nessuno: Claudio Lolli, Paolo Frajese, la br Adriana Faranda, Curcio-Mazinga… Un lungo e articolato atto d’accusa senza avere dietro sicurezze ma solo domande. Quesiti che molti avrebbero dovuto porsi allora come ora. Aldo Moro morto e sacrificato “alla ragion di Stato”, dimenticato e archiviato. Quelle “verità” impossibili che sono quasi sempre e solo di fonte br e cozzano spesso con l’intelligenza, scovate e rilanciate nel suo essere quanto meno poco credibili e forse fasulle, tentativo ancora una volta di spostare la verità. Timpano e il suo darsi con forte dispendio di energia è uno stimolo a cercare ancora, a non accontentarsi di verità ufficiali ma di scavare. Non ripetendo il caso di chi in questo Paese ad esempio, i conti con il fascismo non li ha mai fatti veramente.

Ma al “Giardino delle Esperidi” il punto di partenza e ritorno è sempre la natura. E’ qui che il teatro cerca il suo approdo. Agnese Bocchi e Tobia Scarrocchia hanno offerto in una radura di bosco ad Ello, la prima nazionale del loro lavoro site specific “La capra” . Cuore dell’ispirazione è la poesia omonima di Umberto Saba del 1909 (“Ho parlato a una capra/ Era sola sul prato, era legata/ Sazia d’erba, bagnata/ alla pioggia, belava”…) e una domanda che sin da piccola ha accompagnato i giochi dell’attrice e danzatrice: chi ha il potere, la ragionevolezza, l’ardire, la giustezza di togliere la vita ad un’altra persona?”.

Una scena da “La Capra” atto teatrale in prima nazionale di Agnese Bocchi e Tobia Scarrocchia (Foto di Alvise Crovato)

Attorno a questo quesito c’è il dramma della pena di morte e la fabbricazione del capro espiatorio. Evocano entrambi scenari orribili, dalla Santa Inquisizione allo schiavismo, ricordano le camere di tortura fino ai lager. Dolore, sofferenza, sacrificio, martirio. Ritornano per architettura di gesti e azioni, tra umano e animale, tra padrone e cortigiana, mentre i raggi del sole diventano rossi annunciando il prossimo tramonto. Della vita e della ragione. Una sfida tra la terra e gli alberi senza esclusione di colpi, dove l’odio è anche amore. Svolazzare di panni di lino bianchi, manichini muti e solitari, l’accenno di un passo di danza reiterato, il sacrificio con il sangue che sola sul corpo ai margini della foresta. Il sacrificio è anche la resa finale. Prima c’è la lotta, il corpo a corpo per vivere e non diventare concime per la terra. E’ un tango ammalato che macina ricordi e non si trasforma in danza per la vita. E’ un ultimo flamenco dai passi nervosi: le claquettes del tip tap battono disperate su un lungo asse di legno, scandendo come le lancette di un vecchio orologio, la fine del tempo.

L’ingresso alla Cascina La Fura da cui si accedeva nella radura per assistere a “La Capra” (foto Marco Vitali)

E il miracolo al “Giardino” si ripete come ogni anno. Lo spazio verde dove gli spettatori si sono immersi per assistere allo spettacolo di Bocchi e Scarrocchia è un miracolo di natura. Alberi altissimi a sfidare il cielo, stretti stretti l’uno accanto all’altro, un prato morbido e cento profumi odorosi di campagna. Lasciata la scena teatrale, mentre il sole è già un ricordo, si avanza per un sentiero che porta ad alcune case ricoperte di glicine. E’ La Fura, cascina di indescrivibile fascino. Dalle stanze si scorgono luci colorate e in movimento. Sul terreno fuochi accesi rischiarano le affascinanti sculture di legno, strutture morbide e geometriche fatti di legni diversi: è tutto opera di Franco Vismara, artista scultore giramondo che vive qui con la famiglia e ha curato amorevolmente anche la radura, tirando su giorno dopo giorno quel meraviglioso angolo di natura, fatto di alberi, acqua e cespugli. Luci basse, fiori e fiori dappertutto. Cuscini colorati, porte e finestre spalancate sul patio in segno di benvenuto. Una grande tavola imbandita di frutta profumata d’estate e boccali di acqua fresca. Un convivio. Come, a volte, è il teatro.

Nella Cascina La Fura si respira un’atmosfera di pace e di forte immersione nella natura (Foto Marco Vitali)

 

 

 

 

 

 

 

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