Teatro
Genova, al festival di Akropolis, il teatro del tempo sospeso
Il murales è ancora qui. Le ferite del tempo e le offese del clima hanno appena intaccato questa meravigliosa finestra sul nostro passato. Da giorni lontanissimi, come è distante la stella di Orione nel cielo, continuano a giungerci segnali che appaiono incomprensibili. Ci meravigliamo quando scopriamo il talento di uomini che continuiamo a chiamare primitivi e di cui nulla ancora conosciamo. Se non inezie, piccole cose. Forse è per questo che ancora indaghiamo su noi stessi, sulla oscurità della genesi, sul mistero della nostra specie e delle altre. Probabilmente sta proprio lì, nell’imperscrutabile passato la chiave per aprire il significato della nostra esistenza. Quello stare fuori e dentro che ci accompagna sin dall’inizio, da quando lasciamo il seno materno per perderci nel mondo. Il murales è a Genova, dentro il cortile di una scuola, delimitato da gettate di cemento: accoglie, chi s’inerpica sul colle per entrare al teatro Akropolis. Ai visitatori appare improvviso e inatteso. Si guarda un po’ come fosse l’arazzo di Bayeux, la “Toile du Conquest” , il lungo ricamo che disegna cavalieri normanni alla conquista dell’Inghilterra nell’undicesimo secolo. Come una striscia di bande dessinée, l’opera di due talentuosi writers riproduce puntigliosamente quella che qualcuno ha battezzato la Capella Sistina del Paleolitico superiore, grandissimo tableau scoperto nel 1994 nelle caverne di Chauvet in Francia a Vallon Pont D’Arc nella regione dell’Ardeche. Ciò che si vede dipinto sul muro è una stupefacente teoria di animali. Si sussegue, si intreccia in un groviglio incredibile che sembra avere però un ordine oscuro: mammuth, rinoceronti, leoni, bisonti e cervi, gufi, iene e cavalli. Le linee e i tratti dei disegnatori sono nette e decise. Nei disegni completi, così come in altri appena abbozzati (esattamente come da originale). Non ci sono incertezze o errori in questo pantheon primitivo. Anche nella sua copia ben realizzata, l’intera opera ci osserva ed è come una presenza enigmatica che emana un’aura magnetica davanti a uno dei luoghi dove ancora si pratica uno degli ultimi rituali dell’uomo. Quello del teatro. Non è un caso che l’uomo di Chavet sia arrivato sin qui. Perché è proprio qui che da tredici anni si svolge un festival assolutamente originale e con pochi eguali nel resto d’Italia. Un festival attento soprattutto ai temi della ricerca delle origini, come alle ragioni di una avanguardia e di un mondo underground che poi rivela talenti e lavori di livello. “Testimonianze, ricerca azioni” è il momento topico, l’avvenimento mondano più alto in cui il Teatro Akropolis, in uno spazio completamente rinnovato e funzionale, diretto artisticamente dai registi Clemente Tafuri e David Beronio – autori anche di saggi e pellicole, l’ultima delle quale, dedicata al filosofo Carlo Sini, mostra la tela ordita con passione e determinazione da questo drappello di teatranti innamorati della sperimentazione e che vede assieme per quindici giorni – stavolta è accaduto dal 2 al 13 novembre – teatranti e performer, danzatori e studiosi protagonisti di incontri e spettacoli che lasciano comunque il segno.
Soprattutto adesso, un momento in cui l’arte e la cultura stanno attraversando un forte periodo di crisi “reso ancora più grave da due anni di pandemia e da una guerra che ci vede coinvolti, non solo per questioni economiche” dicono quelli di Akropolis che sostengono come, quello che si percepisce, sia una sorta di allucinazione di cui è caduta preda il nostro tempo: questa ci spinge a vedere sempre e comunque solo il presente. E’ forse solamente l’arte che può contrastare questa allucinazione “per liberare lo sguardo e consentire si tornare a guardarci gli uni e gli altri finalmente ricondotti ad un principio di realtà che contempli anche il nostro passato e la nostra storia”.
Spettacoli che lasciano il segno. Come è stato quattro anni fa “Pragma, studio sul mito di Demetra”, folgorante visione sulle origini della tragedia accade ora in “Apocatastasi”: c’è nel nuovo allestimento di Teatro Akropolis un senso da “fedeli alla linea” che rassicura e invita alla riflessione. Allora come oggi Tafuri e Beronio, lavorano di cesello e infinita pazienza sul tema da sviluppare. Raccolgono riflessioni e scavano sui materiali raccolti. Accumulano sapienza e conoscenza. Tutto ciò poi diventerà oggetto di un fine lavoro di riduzione. Un distillato di azioni e ricerca sino a svolgere il racconto sul palco. “Apocatastasi”: il termine intanto. E’ parola dal duplice significato. Per gli stoici è la ricostruzione del mondo dopo la sua deflagrazione. Per la religione cristiana il ristabilimento dell’ordine divino. Per i primi è la dottrina dell’Eterno ritorno, per gli altri la restaurazione segnata dalla redenzione universale. Ma vale anche come palingenesi, rigenerazione. Naturalmente come accade spesso, chi arriva dopo ricicla quello lasciato da chi ha preceduto. La religione cristiana ha evidentemente ripreso e tradotto miti e riti, soprattutto quelli dell’antica Grecia, facendoli propri e filtrandoli dentro un diverso corpus teorico e filosofico. Questo accade, nel caso specifico, per la fine vita dell’uomo attorno alla quale la Chiesa ha costruito un sistema di sovrastrutture, dal Paradiso all’Inferno, mete finali come premio o punizione nel bilancio della vita. Concetti e pensieri filosofici ripresi ad esempio dall’Ade dei Greci che si nutrivano però di ben altro tipo di ideologia. Siamo ben lontani se non, in alcuni casi diametralmente all’opposto. Il francese Andrè Malraux in “La Mètamorphose de Dieux” (Parigi 1957) ha osservato: “La Grecia, che non conosce il vero sacro, non conosce il vero profano: ogni vita nasconde il suo divino, e ogni divino magnifica la vita che lo nasconde”. Come dire cioè che la mitologia fosse essenzialmente, e prima di tutto, una invenzione poetica. Chi parla della “religione dei greci” _ se così si intende definirla _ sono sopratutto i poeti, in primis Omero, come gli scrittori di tragedie e non certo un clero strutturato con rigide gerarchie al suo interno come è il caso della Chiesa. E’ viceversa, sicuramente vero che i miti greci abbiano nutrito e pervaso tanta parte della religione cristiana. Soprattutto quella delle divinità ctonie. Divinità soprattutto femminili legate ai culti dei sotterranei e agli eventi sismici. Attorno al culto di queste divinità sono stati costruiti altri miti e rituali dedicati alla immortalità, alla vita dopo la morte terrena, così come alla ciclicità delle quattro stagioni. Nei luoghi dedicati a queste divinità resistevano i rituali di tipo sciamanico. ll velamento e lo svelamento di queste pratiche sono il cuore di questi rituali. Tanta premessa è necessaria per capire le ragioni profonde di “Apocatastasi” che, come in tutte le opere degli Akropolis, ha una verità rivelata e una nascosta. Morte e rinascita, subbuglio e scontro interiore sono il focus di questo lavoro ad alta intensità che non rinuncia alla tensione continua. Elemento primo di ispirazione è stato il celebre affresco dipinto a tempi record (molto più lento il pagamento) di Luca Signorelli che tra il 1499 e il 1502 realizza nella cappella di San Brizio nel duomo di Orvieto. Lavoro imponente, dedicato all’”Apocalisse” di San Giovanni. In particolare, nella prima campata, sulla parete di destra è raffigurata “La Resurrezione della Carne”. Due angeli suonano le trombe del giudizio mentre si vedono uomini ignudi uscire dalla terra. Altri conversano. Sono insieme, beati e dannati, in attesa di conoscere la loro destinazione finale. Altri danzano. Nei loro “appunti sulle Danze dell’Ade” pubblicato nel volume dedicato alla rassegna stessa, Tafuri e Beronio annotano scrupolosi che “Signorelli dipinge la fine dei tempi. Il momento in cui smette di scorrere. E cosa accade quando il tempo non c’è più? Cosa accade allo spazio senza il tempo?”.
D’altra parte spazio e tempo sono necessari per dar vita al movimento. Eppure i personaggi di Signorelli non mostrano impazienza. Forse c’è solo una tensione appena percettibile nei corpi. Corpi che si somigliano tra loro. Sono “Figure erotiche, pur non essendo ascrivibili a un eros direttamente riferito alla sfera sessuale, esse sono intente a seguire la pulsione di un desiderio indistinto che le riguarda tutte”. Scrivono Tafuri e Beronio: “eros di Dioniso, ovvero un’altra immagine del fanciullo eracliteo, l’immagine di un tempo che annulla in sé “la distinzione tra presente e passato”, e in cui non è possibile volere nulla che non sia già voluto o avuto”.
Ecco, questo passaggio è fondamentale per capire quello che si presenta come un atto teatrale gravido di significati oscuri che sonda la zona limite tra essere e non essere. Sulla scena, una sedia e due donne. Roberta Campo e Giulia Franzone, si scrutano guardinghe al limite della rissa. L’una e l’altra. Una e diversa dall’altra. Eppure uguali, si fronteggiano compiendo a turno evoluzioni sedute o a cavalcioni sulla sedia. Si guardano come se fossero una sola persona davanti allo specchio: è la coscienza a fare i conti con se stessa, prima del giudizio finale. Le due donne nascondono e svelano i propri sentimenti affrontandosi in un corpo a corpo definitivo. Come in un dramma barocco l’azione di “Apocatastasi” è tenuta per mano da una poderosa musica originale scritta dal maestro Pietro Borgonovo ed eseguita in modo preciso da quattro clarinettisti. E’ una selva di suoni che si intreccia, cresce e sostiene robustamente le azioni delle attrici. Suonando assieme, i clarinetti regalano una ricca varietà di timbri, una musica robusta, densa di sonorità. Dagli acuti al soffio delle onde del mare, il fluire di un respiro. Cambio e ritmo più sostenuto con l’innesto della “Water Life” di Handel, una delle più grandi composizioni del periodo barocco, in questo caso eseguita da Les Violons du Roy diretti da Bernard Labadie e ritorno, per la chiusa, alla musica di Borgonovo. Le due donne accennano due passi che rimandano alla danza macabra disegnata nell’affresco di Signorelli ma qui non accade l’irruzione della morte del mondo dei vivi con gli scheletri che danzano con i vivi. Tuttaltro. Il tempo qui è finito e non c’è incontro. In questo caso Tafuri e Beronio raccontano che i “morti danzano perché tentano disperatamente di dare una forma al luogo in cui ai trovano e a se stessi. Ma nell’Ade la forma si afferma nel movimento e al tempo stesso si dissolve”. Ecco, questo è il non luogo. Lo spazio sospeso dove dall’emersione dalla terra si passa alla dissoluzione. “Tale è la danza dell’Ade, perché il suo ritmo è la figura del tempo negato, il battito del piede si avverte e subito non c’è più”… Anche stavolta Akropolis ha fatto centro solleticando più di una domanda sull’origine dell’opera creativa come della vita, i sogni e la chimera del tempo che passa. Avanti o indietro?
C’è chi, altrettanto in modo radicale, ma sul territorio della danza, continua a disegnare percorsi avanzati di ricerca, giungendo a momenti di sperimentazione tanto raffinata quanto estrema. E’ il caso di Paola Bianchi, danzatrice e coreografa di talento che in modo solitario lavora da tempo a una ridefinizione puntigliosa dei rapporti coreografici tra spazio e corpo. Un corpo sempre più territorio privilegiato per questa artista che ha portato all’affinamento un “metodo che _ scrive la stessa Bianchi _ prevede “l’eliminazione del mio corpo di coreografa, come modello da seguire ed imitare” e ciò avviene attraverso la trasmissione via audio di archivi di posture generati da immagini incarnate precedentemente nel mio corpo”. Ciò è avvenuto negli anni addietro con il progetto “ELP” dove Bianchi, a partire dal 2018, ha dato vita con certosina diligenza alla definizione di una banca dati di memoria visiva coinvolgendo decine e decine di persone. Inizialmente sono immagini che si sono fermate nella retina di uomini e donne, diventati poi elementi di postura e coreografia che Paola Bianchi ha via via tradotto in archivi audio. Sono diventate queste, poi, delle tracce audio utilizzate la prima volta nello spettacolo “Other OtherNess” dove la coreografa ha consegnato alla danzatrice Barbara Carulli le tracce in cui veniva descritta la postura da utilizzare volta per volta fino alla composizione di una partitura. In “Assimilia”, lo spettacolo che Paola Bianchi ha portato in scena a Genova si va oltre. La danzatrice infatti indossa un paio di cuffiette da dove arrivano gli ordini delle posture. In pratica si danza al buio senza una linea coreografica. Che vuol dire anche assenza di visione dello spazio. Si sa dove si comincia ma non dove navigherà il corpo.
Paola Bianchi, per l’occasione indossa un ardito ed elegante abito lungo e nero (disegnato e cucito da lei stessa) che sembra una veste presa in prestito a un samurai. Inizia la danza a contatto con il terreno descrivendo volute e spostamenti alla cieca e in diagonale. Non avrà una coreografia da seguire, ma quel suo muoversi è comunque più forte di ogni aspettativa.Trasmette energia e forza. I movimenti spesso improvvisi cancellano gli sviluppi dell’azione precedente per metter in pista qualcosa di inedito. E imprevisto. E’ un danzare alla cieca che sottende furia, voglia di rompere gli argini e sovvertire l’ordine. La segue, quasi con discrezione la colonna sonora del giovane compositore Stefano Murgia, un impasto di suoni elettronici non invasivi, quasi un commento sotto pelle per una danza che d’improvviso apre spazi inattesi, oppure spezza il ritmo di un movimento congelandolo per una manciata di secondi. Una danza in solitario che cita quella dell’uomo contemporaneo sempre più solo davanti al pericolo di una catastrofe imminente. Bianchi danza comunque con rabbia, eppure il suo corpo esprime armonia mostrando sempre una presenza autorevole e intrigante, fatta di eros e teatralità non comuni, in grado ogni volta di provocare passione e commuovere.
E bisogna davvero lasciarsi trasportare dai bravi danzatori della “Pastorale” di Daniele Ninnarello (Vera Borghini, Zoè Bernabèu, Lorenzo Covello e Francesca Didibiase) edificata sull’avvolgente e iterativa musica di Dan Kinzelman per trovarsi alla fine perduti al centro di un movimento circolare che sembra copiare e simulare quello dei pianeti in simbiosi performativa. I danzatori si sfiorano impercettibilmente mentre vagano sempre più veloci come monadi nell’universo. E’ una lunga teoria, prima di girotondi dopo di balli concentrici che ricorda quella dei dervisci rotanti, mistici sufi che si ispirano agli astri. Una danza ipnotica che si vorrebbe non finisse mai.
Per restare nel pianeta della danza va segnata al festival di Akropolis la bella prova in “Ca Ira” della compagnia italo-francese MF, dove le due iniziali stanno per Maxime & Francesco. Uno francese e l’altro italiano, partenopeo, a cui si aggiunge dal vivo un tarantino, Pieradolfo Ciulli (gli altri due sono Maxime Frexas e Francesco Colaleo). Il trio abbozza una coreografia ricca di movimento e di fresca e intelligente ironia. Danza di buona fattura fatta di coordinamento e alcuna sbavatura. Energia e leggerezza allo stesso tempo in movimenti spesso in surplace per evocare l’eterno ritorno superando la ripetizione di gesti e azioni che appartengono alla quotidianità. Passi definiti in scioltezza eppure all’unisono per i tre uomini in black che si spostano sulla scena, rigorosamente in diagonale (l’ipotenusa di un triangolo rettangolocon cui è stato diviso il pavimento), richiamando degli uccelli (si ode pure il cinguettìo)che zampettano, a volte mimando un’apertura e un nuovo inizio per tornare dopo gag, variazioni e camminate al punto di partenza. Si mescola filosofia e pop culture, Nietzsche e Whitney Houston per riflettere sul nostro tempo, mimando la circolarità della vita, sostenuti dalla musica ad hoc di Jerèmie Esperet, e il ben curato light design di Cristian Perria. Citano nel loro danzare marce militari e balli popolari come il sirtaki ma anche la passeggiata di ogni giorno, anche perché per MF “Camminare è un’azione ed una coordinazione volontaria per attendere una meta, un luogo adatto ad una possibile metamorfosi del corpo: simili a complessi scultorei, i corpi si modellano e assumono nuove forme e posture. Sperimentano, nel momento presente, la legge del caso e dell’imprevisto, risvegliando una relazione costante tra le diverse parti del corpo, che dialogano e costruiscono nuove architetture nello spazio”.
Una ironia amara pervade l’opera di Carlo Massari (C&C company) che in “Larva” ha mostrato il primo capitolo del progetto di ricerca triennale “Metamorphosis” (il secondo, “Blatta” è andato in scena la sera di chiusura del festival). Si apre con il danzatore che guarda in silenzio il pubblico mentre viene diffusa la registrazione audio di un recente discorso del presidente francese Macron che parla di siccità, crisi climatica e di guerra in Ucraina. Improvvisa la danza fa il suo ingresso al ritmo esaltante della “Jazz Suite, Waltz no. 2” di Dmitri Shostakovich eseguita dall’orchestra diretta dal violinista Andrè Rieu. Massari percorre a passi veloci lo spazio della scena lanciando in aria coriandoli colorati ed argentati. Danza fino alla fine della musica, improvvisando passi di tip tap e inventando figure. Continua a gettare al vento coriandoli lanciandosi in uno speech ad alto tasso di ironia e denuncia (“Beati il 64 % degli elettori che sono andati alle urne a votare… etc” chiudendo con il rap “Europe is Lost” della rapper e poetessa inglese Kate Tempest.
Al festival di Akropolis altri e diversi spettacoli hanno mostrato una linea di ricerca netta e con interessanti spunti di riflessione. Masque teatro ad esempio in “Il Presente” ha dato vita a una installazione di forte fascino. Una struttura ideata da Lorenzo Bazzocchi, quasi una citazione delle macchine del film “Les Temps Modernes” di Chaplin muoveva un congegno eterno.Tentativo di fermare l’attimo in sospensione tra passato e futuro. Dei pistoni automatici si sollevano e scendono sbuffando come una vecchia locomotiva a vapore. Questi muovono una lamiera sulla quale è adagiata la performer Eleonora Sedioli: a ogni movimento della macchina viene modificata la posizione del suo corpo, quale fosse materia da scolpire all’istante: energia che viene rilasciata e ripresa, un atto che solleva più di un interrogativo sul rapporto uomo -macchina. E’ una installazione anche “And Then There Were None” (Poi non c’era nessuno) della danzatrice Greta F. Da uno schermo escono le immagini sbrindellate di una ripresa che ritrae dei fiori finti. La scena è ingombra di tappeti rossi, di ostacoli al cammino della performer. Non c’è danza ma solo il percorso obbligato e ad libitum di Greta F che, accompagnata dal suono di una musica ripetitiva, si aggira con sguardo assente. Ed è proprio in una sorta di attesa beckettiana il fascino di questa azione che nella ripetizione del gesto sembra perdersi nel tempo.
L‘”Affabulazione” di Pier Paolo Pasolini e il “Pinocchio” di Carmelo Bene servono a Bernardo Casertano per costruire la sua “Charta” (sottotitolo: “ciò che ieri dicevo sul serio oggi lo dico per scherzo”) dedicato alla condizione umana. Teatro e letteratura per raccontare lo sgomento e la paura che prende un maschio davanti al grande mistero della paternità. Una paura che nel caso specifico si trasforma in angoscia e delirio teatrale. Un delirio fatto di veli di carta bianca strappata al ventilatore, di carte che si mescolano. Di un padre che vorrebbe esser figlio. Padre e figlio di se stesso. L’esempio di Pinocchio che, imparando a leggere diventa una persona mediocre, insegnerà al padre Geppetto a leggere “con l’arroganza che è propria della paternità; nessuno è padre a un altro, del resto” (Bene docet). E Casertano racconta così il sogno di Pinocchio, senza genitori e figli che un giorno sognò di essere padre. Come padre di se stesso decide di chiedere l’ammissione a una scuola di danza per suo figlio, cioè per se stesso…
Ma “Testimonianze, ricerca e azioni” è anche cinema con le proiezioni degli originali e ben realizzati filmati-documentari a cura di Tafuri e Beronio. Il primo in prima assoluta è su Gianni Staropoli uno deipiù innovativi light designer del teatro italiano, il secondo _ presentato alla recente edizione della Biennale Cinema di Venezia _è sul filosofo Carlo Sini, uno dei filosofi più importanti del nostro tempo. Lo stesso filosofo è stato protagonista in streaming di un incontro realizzato con Mechrì, il laboratorio di cultura e filosofia fondato dallo stesso Sini. In questo meeting hanno partecipato anche Florinda Cambria, lo studioso e storico del teatro Antonio Attisani e Tommaso Di Dio. Focus su rapporto tra filosofia e arte della scena, alla ricerca di un linguaggio che crei uno spazio in cui le rispettive discipline possano percorrere un tratto di cammino comune. A raccontare una storia del teatro contemporaneo disseminata di laboratori e comunità teatrali è stato invece lo storico del teatro Marco De Marinis che ha condotto il seminario “La relazione Teatro-Città e il suo rovescio. Laboratorialità, “apolitologia”, terzo teatro”. Un’anteprima dedicata al teatro di figura ha aperto il festival il 26 ottobre, con un incontro con lo studioso Alfonso Cipolla e, protagonisti il critico Mario Bianchi e Andrea Bernasconi, la proiezione del loro filmato “Io di mestiere faccio il burattinaio”. Dal 2 novembre si è continuato con numerosi incontri (tra cui Roberta Nicolai di Teatri di vetro) spettacoli e artisti: da Elisabetta e Gennaro Lauro in “ZugZwang” a Sofia Nappi e Komoco in “Dodi”, Cecilia Ventriglia in”Anonima”. Amer Kabbani ha presentato “Runa”. Giornata speciale a Palazzo Ducale dedicata al Butoh e prima assoluta di “Matrice. Da Ana Mendieta” a cura di Alessandra Cristiani. Masaki Iwana in “Vermilion Souls”, Stefano Taiuti in “Corpo d’acqua”, Moeno Wakamatsu e Le Qua Ninh in “Consumed by the Invisible”, il teatro del sottosuolo in “Paidia” e la Giovine Orchestra genovese in “Irradiazioni”, Dasding (Giampino/Guratti) in “The Red Thing” e infine Andrea Cosentino in “Primi passi sulla luna”.
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