Teatro
Sguardi sul mondo, intervista con Gabriele Vacis
Gabriele Vacis è da tempo uno dei grandi protagonisti della scena italiana e internazionale. Regista, autore, è in questi giorni “di scena” con due spettacoli, diversi e lontani tra loro, ma legati da un simile afflato.
Il primo è Hamlet in Jerusalem, da domani alle Fonderie Limone di Moncalieri, nell’ambito della stagione dello Stabile di Torino. Il secondo è La parola padre, realizzato con Koreja di Lecce, che arriva da mercoledì 30 al Piccolo Eliseo di Roma.
Hamlet in Jerusalem è un progetto dello stesso Gabriele Vacis con l’apporto fondamentale di Marco Paolini, e ha radici molto lontane: un’idea che nasce nel 2008 a Gerusalemme, al Palestinian National Theatre di Gerusalemme Est, sotto l’egida del Ministero degli Affari Esteri Italiano e della Cooperazione per lo Sviluppo: una scuola di recitazione per ragazzi palestinesi, e la chiave per poter ascoltare e realizzare quel percorso teatrale è stata proprio il “grande classico”, ovvero l’Amleto di Shakespeare, reso ancora più cogente dalle complicate esperienze di chi vive in Palestina: i riti di passaggio, il rapporto uomo/donna, il conflitto con la famiglia, le generazioni a confronto, la rabbia, la violenza e l’amore.
L’altro spettacolo in cartellone, La parola padre, è di qualche anno fa. Ma non ha perso il proprio valore e l’assoluta rilevanza: è profondamente legato al clima esplosivo dei Balcani, mettendo assieme, in relazione, le due sponde dell’Adriatico. Sei ragazze in scena: tre sono italiane, una è polacca, una è bulgara, una è macedone. Il loro racconto, sul filo della memoria collettiva e privata, è un fare i conti con la loro patria, con i loro padri. «Con le sei ragazze – racconta Gabriele Vacis – ho fatto lunghe interviste. Sedute psicanalitiche più che interviste. Ho chiesto loro di raccontarmi quando hanno avuto davvero paura, quando si sono sentite al sicuro».
Dunque, abbiamo preso l’occasione di questo doppio “debutto”, per parlare con Gabriele Vacis del suo lavoro e del suo pluriennale percorso artistico.
Palestina e Balcani, giovani interpreti professionisti e non: quale legame tra i due spettacoli?
«Se ci penso, c’è qualcosa che ha sempre guidato il mio lavoro. Quando eravamo giovani creavamo ponti verso le generazioni precedenti, cercavamo di capire i nostri padri. E adesso, che siamo praticamente nonni, gettiamo ponti verso i giovani, i figli e i nipoti della nostra generazione. Questo mi fa notare prima di tutto un grande cambiamento: una sensibilità “globale”, nelle nuove generazioni, che noi non avevamo, semplicemente perché non avevamo internet. Le nostre informazioni erano “narrate”: l’amico tornato dal viaggio ti raccontava Londra. Invece adesso chi ha figli a Londra, può parlarci quotidianamente, vedere dove stanno. Questo cambia completamente la percezione del mondo e la percezione delle dimensioni del mondo in cui viviamo. Dunque, il fatto di lavorare con persone che vengono da paesi diversi ha un senso profondo, che va proprio nella direzione di capire quale sia il loro sguardo sul mondo. Poi c’è un altro tema per me molto importante: noi abbiamo vissuto settanta anni di pace. Abbiamo conquistato questa cosa meravigliosa che è la pace, e dunque la possibilità di dedicarci alla crescita, alla qualità della vita. Un miracolo mai accaduto prima che forse, però, ci ha un po’ “infiacchiti”: è come se i giovani di oggi fossero cresciuti sotto una campana di vetro, sempre nella protezione e sicurezza. Nel resto del mondo, lo sappiamo, non è così. E probabilmente per questo in Palestina come nei paesi dell’Est trovi un soffio vitale, una straordinaria consapevolezza di sé, una presenza a se stessi fortissima. I ragazzi palestinesi con cui sto lavorando, le ragazze dell’Est con cui ho lavorato sono presenti a se stessi, naturalmente. Non hanno bisogno di lavori di preparazione per arrivare alla consapevolezza».
Dunque come è cambiato, se è cambiato, il metodo di lavoro per questi attori?
«Intanto si comunica con lingue che “conosco” come l’arabo, il polacco, il bulgaro! Il che mi fa parlare molto meno, con grande vantaggio di tutti! Vantaggio per me ma soprattutto per gli attori e per chi lavora con noi! Battute a parte: sono costretto ad agire, a essere anche io “presente” soprattutto fisicamente. Una prassi che stiamo verificando nel lavoro di Torino con Marco Paolini: anche lui, che ha una storia personale ovviamente molto legata alla “parola”, in questo spettacolo parla poco e agisce molto. È una mutazione epocale per il nostro lavoro!».
Partendo dall’esperienza di Teatro Settimo, hai attraversato, e spesso guidato, i cambiamenti della scena italiana dalla fine degli anni Ottanta, diventando protagonista diretto e indiretto di quanto è accaduto sui nostri palcoscenici. Come vedi il teatro italiano di oggi? Come si muovono, allora, questi “figli”?
«I figli hanno sempre bisogno dei padri, e i padri hanno sempre bisogno dei propri figli… Mi piace molto osservare quanto stanno facendo le nuove generazioni del teatro. Mi piace cercare di capire cosa è cambiato nei giovani. Vedo, in Italia, nel teatro come in tutti i settori, una stagnazione, forse obbligata. Il perché è evidente. Come diceva Bartali: “è tutto sbagliato, è tutto da rifare!”. Gli ultimi provvedimenti, i decreti, sono a tutti gli effetti una rinuncia a mettere le mani nel sistema del teatro. E in un contesto simile, quando si opera in questo modo, ovviamente chi comincia ne risente di più, ha più difficoltà di chi sta già lavorando da tempo. E poi, come dire?, mi sembra ci sia una specie di “stitichezza”, che si esplicita in una mancanza di storie da raccontare. Vedo tanti talenti in giro: più o meno ogni generazione ha i propri talenti, gente brava con grandi capacità. E anche i ventenni, i trentenni di oggi hanno i loro talenti: ce ne sono di straordinari. Ma sono mortificati nei temi e nelle storie, come se avessero poche cose da raccontare. Vedo ragazzi bravi, che scrivono bene, che recitano bene, ma che raccontano “storielle”. Invece, se lavoro con i ragazzi palestinesi, scopro che ciascuno di loro ha storie enormi dentro di sé…».
Anche per questo sembra opportuno guardare fuori dall’Italia, cercare confronti altri, superare la solita autoreferenzialità del nostro teatro…
«Per me è sempre stata una necessità. Il teatro serve per parlare del mondo, non per palare del teatro. E non c’è bisogno sempre di grandi vicende. In questi spettacoli affrontiamo piccole storie, quotidiane. Non parliamo di fatti importanti, come è stato per il Vajont o di epopee come fu la saga degli Olivetti. Abbiamo a che fare con persone che vivono immerse in realtà difficili, conflittuali, di grande cambiamento, che però hanno la forza di guardare al futuro, di pensare ad un riscatto, personale e pubblico. E ce lo raccontano».
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