Teatro
Fortebraccio teatro: poetiche metamorfosi di un clown
Ha grandi meriti Roberto Latini: non solo artistici ma anche intellettuali. Con un’infilata di tre spettacoli ci ha dato molto su cui riflettere e discutere, da vari punti di vista. A partire dalla rilettura di Ubu Re, passando per i Giganti della montagna, approdando infine a Metamorfosi, Latini ha scosso la scena italiana con proposte di grande complessità. Quest’ultimo, in particolare, è un articolatissimo progetto che attraversa la celebre opera di Ovidio, andando – come è costume del regista e attore romano – in un altrove emotivo, poetico, umano che è altra dimensione.
Delle Metamorfosi ho potuto vedere, al Teatro Vascello di Roma, solo l’episodio dedicato a Narciso: il che equivale alla punta dell’icerberg, essendo il lavoro articolatissimo, ampio, esteso in tre giornate piene e in tanti capitoli diversi (in scena ancora oggi e domani).
Ma da quel breve quadro, solo un quarto d’ora, dedicato a uno spettatore per volta, si possono trarre suggestioni e dedurre – a mo’ di corollari logici – alcuni spunti per ulteriori domande.
Iniziamo, dunque, da quel breve frammento scenico che, quando sono andato io, vedeva protagonista Ilaria Drago (nel ruolo si alternano diversi attori, poiché Narciso viene replicato per tutta la giornata, dalle 10 alle 22).
Lo spettatore è accolto da una gentile accompagnatrice, che si premura di dotarlo di cuffia con ipod allegato. Tutto il racconto di Narciso, infatti, arriverà direttamente registrato e amplificato in cuffia, con la voce di Ilaria Drago, sulla partitura sonora di Gianluca Misiti. Lo spazio cui si accede, poi, chiuso da veli, è candido (le luci sono di Max Mugnai), e al centro ospita una specie di piscinetta, una vasca bianca circondata da fiori altrettanto bianchi. Sulla parete di fondo si staglia un tondo di luce, che evoca un sole lontano. Dentro la piscina lei, Ilaria, vestita da clown coloratissimo. Naso rosso, scarpe enormi bianche e nere, parrucchetta e cappelletto: la divisa d’ordinanza di un clown tradizionale, felliniano.
E mentre si dipana il racconto, evocativo, struggente, lirico, poetico, lei, la figuretta clownesca, si muove, accenna passi di danza, si specchia in quell’acqua chiara.
Ecco, allora, le prime tre suggestioni: la scrittura poetica che ci sussurra all’orecchio, è declinazione viva, vibrante, attuale del classico. Opera pregevole, di spinta verso l’alto, verso un lirismo non manierato ma interiormente posseduto, e per questo condivisibile. Il teatro di Roberto Latini è oggi più che mai feroce corpo a corpo con la parola poetica: da questa sfida non si ritrae. Da sempre, dai suoi primi lavori, questo attore si è fatto autore per se stesso e oggi, senza mai perdere la bussola di un percorso rigoroso, ha acquisito una consapevolezza drammaturgica che è esistenziale e teatrale, fatta al tempo stesso di scavo verso l’essenza del classico da cui prende le mosse, e di arricchimento esplosivo delle possibilità emotive, liriche addirittura semantiche che ne trae.
Teatro di poesia, insomma, che trova nel clown una cifra esplicativa netta. Già Federico Tiezzi ha portato, recentemente, l’estetica della clownerie in Pasolini; ora con Latini, questa figura astratta e concreta, antica e presentissima, simbolica e reale, si pone come – provo a dirlo – “maschera della maschera”, superando e mettendo in corto circuito la presenza fisica della persona-performer e quella evanescente del personaggio. È un terzo da sé, il clown: al di là di ogni retorica, dietro al biacca (la faccia infarinata del pagliaccio) ci sono gli occhi dolenti dell’attore, che si confronta con un ulteriore ruolo, quello imposto dal personaggio.
In questo Narciso, poi, il clown-Ilaria Drago evoca, nella partitura gestuale, una sequenza infinita di chiavi di lettura: mi è piaciuto ritrovarvi il “suppliziato che fa cenni dal patibolo”, caro all’ultimo Antonin Artaud, bloccata com’è in quella gabbia d’acqua, nella rivolta che il corpo impone a se stesso in nome dell’amore; fino all’incarnazione di un’armonia eterea, apollinea, impossibile da agguantare, come era Tadzio in Morte a Venezia. E noi, Aschembach decaduti, stiamo là, seduti sulla nostra panchetta a guardare quella meraviglia evanescente nel sole. Che un po’ è il motivo per cui ci ostiniamo, sera dopo sera, ad andare a teatro: quell’incantamento antico, e sempre nuovo, per la “bellezza terribile” e arruffata della vita.
C’è da dire ancora di lei, di Ilaria Drago, di quest’attrice autrice scrittrice poeta, appartata e potentissima. La conosciamo praticamente dal suo debutto. L’abbiamo seguita e apprezzata quando lavorava con Leo de Berardinis, nei suoi spettacoli in solitaria, in quel tentativo che fecero – proprio con Roberto Latini – di fare teatro assieme. È forse una delle migliori attrici italiane, ma a lei non importa nulla di entrare nel “circuito ufficiale”. La ritroviamo oggi, sempre bellissima, posseduta dal “suo” teatro, cui dà vita senza reticenze, trasportata in mondi altri e caronte, per noi spettatori, verso inferi dell’anima con cui è sempre delicato confrontarsi. Bello sentire la sua voce in cuffia, bello vederla in scena, figurina clownesca sì, ma straordinaria.
Infine, i corollari, i pensieri che arrivano dalla declinazione nel reale di questo teatro. La compagnia di Roberto Latini, Fortebraccio Teatro, si è fatta alfiere di un teatro d’arte, di raffinata qualità. Un progetto come Metamorfosi si staglia, volutamente, per la sua assoluta anti-economicità. Uno spettacolo per uno spettatore alla volta (non è una novità: basti pensare al Teatro del Lemming o a Vargas) oggi diventa davvero un paradosso impossibile, un grido contro le “regole del mercato” che vanno tanto di moda. E un lavoro con tanti attori è in netta controtendenza rispetto a una scena in cui prolificano ormai monologhi o blandi dialoghetti. La pretesa sostenibilità economica del teatro, che gratifica i campioni di incasso e di intrattenimento, rischia di far piazza pulita di tutto questo. E come i clown stanchi di Fellini, costretti a correre in pista, i nostri poeti della scena faticano non poco. Va bene così? Il teatro deve inchinarsi sempre al botteghino? Vincerà, con tutto rispetto, Massimo Ranieri?
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