Teatro
Festival Inequilibrio, capitolo II
Sarà capitato a tutti, di aprire uno scatolone – magari dopo un trasloco – e scovare o riscoprire cose inattese. Oggetti, immagini, vestiti: frammenti di vita, tracce indelebili del passato, fossili di esistenze passate. Quante vite viviamo? Chi eravamo dieci, venti o solo tre anni fa? È una domanda retorica, dal gusto vagamente cechoviano: eravamo noi, certo, ma altri.
Sono proprio quelle cose che concorrono a testimoniare e illuminare la nostra autobiografia, al pari delle opere, dei gesti che facciamo. E non per il possesso materiale, non per la semplice regola capitalista dell’accumulo, quanto piuttosto per il segno che lasciamo su di esse. Quasi che le impronte digitali, il segno dell’esistenza, si riversi su quelle robine, rendendole distensione dell’anima. E ritrovarle fa scattare il ricordo, a volte la nostalgia. Se questo è un sentire comune, la faccenda, però, si fa più sottile quando la decliniamo al futuro: come saremo tra dieci anni, se ci saremo ancora? Quali cose testimonieranno allora, in un tempo più o meno lontano, il nostro essere di oggi? Cosa avremmo potuto essere e non siamo stati, cosa diventeremo e non siamo ancora?
Sono domande che giravano nell’aria, stringendo alla gola tutti e ciascuno i partecipanti allo spettacolo Rzeczy/Cose di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, andato in scena in una delle sale del Castello Pasquini di Castiglioncello, per il Festival Inequilibrio.
Questo spettacolo parte da un reportage di Mariusz Szczygiel (un bel libro edito in Italia da Nottetempo) che racconta di una casalinga polacca, Janina Turek, la quale aveva catalogato, trascritto, censito ogni gesto della sua vita in 748 piccoli quaderni, e aveva raccolto attorno a sé cose (cartoline, memorabilia, fossili apputo), scoperti dalla figlia solo alla prematura scomparsa della madre.
E la suggestione da cui partono Deflorian/Tagliarini è proprio questa: Janina Turek viene colta da infarto in mezzo a una strada di Crocovia. Cosa resta di quella donna e madre? Come verrà ricordata?
Rzeczy/Cose risale a qualche anno fa: è del 2011 e sarebbe poi sbocciato nel bellissimo e più compiuto spettacolo dell’anno successivo, Reality. Ma ha fatto bene la direzione artistica del Festival a riproporlo, perché anche nella forma di “istallazione” o perfomance che abbiamo visto, Rzeczy/Cose mantiene intatto il proprio valore di indagine sui meccanismi del ricordo, della nostalgia, della compassione. I piccoli oggetti che sbucano dagli scatoloni sono di tutti e ciascuno: il primo filmino Super8, la scatola del Risiko con i carrarmatini, un orribile pinguino di ceramica imballato con cura, il quaderno della scuola con il problema da risolvere, una vecchia tazza, un 33 giri con Lou Reed che canta Perfect day…
Ogni cosa ricorda un istante, una persona, una voce. La figura paterna che torna evocata dal modo di tirare le bocce, con tenerezza infinita. Quella della madre con il suo ordine, i vestiti, le scarpe. Così il tono suadente e sereno di una lieve conversazione si tramuta in un groppo in gola, in uno struggimento languido, che non lascia scampo. Deflorian e Tagliarini, con le loro voci, con i gesti tenuti al minimo, con quei sorrisi sorpresi, toccano il cuore degli astanti, e la vita di una piccola casalinga di Cracovia diventa simbolo, universale e condiviso, della condizione caduca dello stare al mondo. I ricordi dobbiamo costruirceli, giorno per giorno, minuto per minuti: gli istanti, le sensazioni, le persone passano, passeremo lievi.
È un gioco teatrale delicato e raffinatissimo: sembra sfiorare l’immedesimazione degli attori, addirittura l’autobiografismo, ma in realtà è un “recitare”, un dare il personaggio con garbo, e con acume e intelligenza. Lo stile interpretativo cui ci hanno ormai abituato Deflorian/Tagliarini evoca un “vero” assolutamente teatrale, ma immediatamente riconoscibile: è un gioco, un tendere all’essenza difficilissimo. Occorre essere straordinari attori – scriveva una volta Renato Palazzi – per recitare se stessi.
Nella mia seconda giornata al Festival Inequilibrio, poi, c’è stato spazio ancora per due spettacoli. Il primo di cui vale la pena certo dire è il Cantico dei Cantici di Fortebraccio Teatro e Roberto Latini. Non nascondo che, quando l’attore e regista aveva annunciato questo titolo, avevo alzato il sopracciglio. Il “Cantico” è ormai diventato una hit della ricerca teatrale internazionale, quasi una tappa d’obbligo con cui si sono cimentati tanti se non tutti. E in questo rinnovato afflato spiritual-religioso-sacro che connota tanta scena italiana, provavo una certa diffidenza (tra l’altro, è divertente: esiste un sito, canticodeicantici.com dedicato ai single cattolici che ha come sottotitolo “non è bene che l’uomo sia single”. Amen.).
Poi, però, dopo aver visto l’anteprima di Latini a Primaveradeiteatri di Castrovillari, e ritrovandolo ora, mi sono felicemente ricreduto. Fortebraccio Teatro – ossia lo stesso Latini con le musiche di Gianluca Misiti e le luci di Max Mugnai – allestisce un curioso set radiofonico, posticcio, incredibile: una panchina basculante sul davanti, una pianta finta sulla destra, e quella specie di studio radio, con tanto di scritta “on air” che si illumina. Lui è dunque una sorta di dj, di evocatore notturno di parole d’amore. La struttura è pop, eccentrica, ironica: la voce si distorce e poi torna se stessa, si sdoppia in una dialettica muta che diventa lamentazione e slancio, desiderio e rimpianto. Viene da pensare a Roland Barthes quando scriveva della “grana della voce”: oltre il “piacere del testo” – provo a dire a memoria, non ho il libro sottomano – resta proprio la grana della voce, l’aspetto carnale, umorale, della lettura oltre ogni interpretazione. Ecco cosa mi ha convinto di questo Cantico: proprio l’essenza umorale, terrigna, fisica. Latini dà all’opera un crescendo di materialità, di asprezza e presenza del corpo, grazie alla quale il “dicitore-dj” si spoglia degli elementi che arricchivano la sua figura e rimane essenzialmente maschera tragica di un amore desolato e straziante.
A questo punto, infine, dopo aver seguito tutti o quasi gli spettacoli di Latini, praticamente dal suo debutto, mi chiedo oggi che “maschera” Roberto stia costruendo su di sé: qui usa un cappottone svolazzante, una parrucchetta sghemba e nera, gli occhi bistrattati, un filo di rossetto. È un vecchio clown, forse, che si impossessa con il suo incedere dinoccolato del performer; oppure è un personaggio pirandelliano ormai sfinito, o ancora un animaletto notturno; oppure ancora quasi un Corvo o un Marylin Manson disincantato. Non so: ma mi sembra di poter dire che Latini attore, come ogni grande attore, stia indagando la propria maschera con esiti di grande intensità.
Resta poi da dire dell’atteso Foutrement, della coreografa quebecchese Virginie Brunelle. La quale ha firmato spettacoli notevoli, in passato, ma qui si incaglia in un pedante, stucchevole, estetizzante e prevedibile giochino sulle dinamiche di coppia e del tradimento. Facendo salva la bella e generosa prova dei danzatori (il possente Simone-Xavier Lefebre, e le algide Isabelle Arcand e Claudine Hébert, entrambe a lungo sulle punte), il lavoro parte con la Callas e Casta Diva, e nel poutpourri di musiche che segue declina – in modo anche un po’ ruffiano, con tutti quegli slanci, quelle prese, quegli abbracci, quegli sguardi che vorrebbero essere intensi – il solito trio lui-lei-l’altra. Dopo il momento sado-maso, con tanto di cinte e cinture, la coppia iniziale si ricompone e lui, che nientemeno tirava di boxe, si trova fragile e sconfitto, ma verrà finalmente sorretto da lei. Non serve entrare nelle visioni morali e moraliste, negli stereotipi del maschile e femminile che guizzano da ogni sequenza. Basti dire che l’esito, anche bello per tanti aspetti, è presto manierato e, per me, francamente inutile.
(la foto di copertina è di Angelo Maggio)
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