Teatro
Festival, capitolo tre: Castrovillari
Un aspetto interessante dei festival di teatro – quando sono ben fatti e organizzati – è che sono un “precipitato” del presente. Nel volgere di pochi giorni, in uno spazio concentrato, danno una prospettiva di quel che è o che sarà il nostro tempo. La prerogativa degli artisti, e dei teatranti, è questa: quando “girano” bene sono un avamposto, quei cento chilometri avanti a noi tutti: intuiscono, vedono, illuminano, a volte spiegano. E noi, i critici, dietro affannati, cerchiamo di cogliere quei segni, di fare mappe dei mondi che gli artisti creano e cerchiamo di farcene (e farne) ragione. Così, spettacolo dopo spettacolo, intuiamo meglio chi siamo, cosa stiamo vivendo e quel che ci circonda. Anche nel lavoro più pasticciato, pieno di difetti, possiamo intravedere proposte, idee, prospettive. Allora, al Festival Primavera dei Teatri di Castrovillari sono stati tanti gli spunti di ragionamento, gli attivatori dei discorsi su cui vale la pena riflettere. Al centro di molti lavori, ad esempio, c’è il tema della faticosa costruzione di identità. Tema non nuovo, ma che sembra centrale per il teatro d’oggi, soprattutto in chiave di identità liquida sessuale o sentimentale, professionale o familiare. Sospesi, concretamente e teatralmente, tra il non essere e l’essere (come dice una mia amica brava scenografa), le nuove generazioni si interrogano con i mezzi a propria disposizione, su chi sono o sul come sono visti e giudicati.
In Pedigree, i veronesi Babilonia Teatri – con lo stile scandito e asciutto, graffiante e pop che li contraddistingue– affrontano di petto non solo il tema del “gender”, ma anche la per molti spinosa questione della inseminazione eterologa. Mentre si cuociono dei polli arrosto, come in un celebre spettacolo di Rodrigo Garcia di molti anni fa, un uomo racconta di sé e delle sue due mamme in un discorso che chiama in causa direttamente il fantomatico padre donatore. È un esame di coscienza, privata e collettiva, una narrazione interpretata con caustica aderenza da Enrico Castellani, solo in scena (mentre il tecnico Luca Scotton è, come sempre, testimone meta-reale del dispositivo teatrale) su musiche della tradizione rock.
Ma quasi tutti i lavori visti in Calabria mettono al centro della propria inchiesta la questione dell’identità.
Ironizzano tra passato e presente I Sacchi di Sabbia – che personalmente adoro – in un lavoro gotico e comico ancora tutto da sistemare, che mette assieme la natia Pisa con Mary Shelley, Frankstein e un misterioso scienziato toscano Franco Stone. Con l’apporto dei Gatti Mezzi e delle illustrazioni di Gipi, lo spettacolo, il lavoro si chiede chi fosse questo Franco Stone e chi fosse la sua “creatura”, chiamando in causa altri (troppi) scienziati dell’epoca. Ma il tutto è ancora troppo ondivago e zeppo di segni per arrivare all’essenza del messaggio e la storia che vorrebbe trasmettere.
Altrettanto da sistemare per drammaturgia e regia mi è sembrata la rilettura dell’Aiace sofocleo firmata dalla pur brava Linda Dalisi con Matteo Luoni. In scena Abraham Kouadio Narcisse nel ruolo dell’eroe greco, con la francese Estelle Franco e il bravo Annibale Pavone, questo Aiace prodotto dalla compagnia Stabilemobile parte benissimo, avvinghia per mezzora ma poi si dipana in troppi rivoli e rimandi, in citazioni e situazioni che ingarbugliano la matassa come la corda che fa da simbolo alle contraddizioni umorali e sentimentali di Aiace, cui Narcisse dà densi toni e colori africani, incarnando e dando voce ovviamente allo straniero, al diverso, al non allineato.
È quanto accade anche in Tropicana di Frigoproduzioni: parte bene, ma necessita, secondo me, di una ulteriore e robusta messa a punto (non fosse altro per i toni e i volumi: si perdevano molte battute). Al centro dell’indagine vi è stavolta la difficoltà di essere artisti, di far parte di un mondo che sfrutta la novità all’inverosimile per poi accantonarla. Così la creazione collettiva a cura di Francesco Alberici, anche in scena con Claudia Marsicano, Daniele Turconi, Salvatore Aronica, evoca lo spettro kitsch del Gruppo Italiano, la band meteora che nel 1983 firmò il celebre motivetto che fa da titolo allo spettacolo. Nella disputa tra l’autore del testo, l’arrangiatore, la cantante, e il corista si dipanano ampiamente vicende individuali e generazionali molto simili a quelle che vivono, oggi, tanti giovani artisti. Ma la metafora è subito chiara e il lavoro, seppur gradevole nell’impianto generale, procede per accumulo, per reiterazioni, per sequenze prevedibili e reiterate, e rischia – almeno per me – di non spostare molto gli equilibri del tema affrontato.
Sulla dinamica passato/presente, con una forte presenza musicale live, è giocato Personale Politico Pentothal, omaggio che i Fratelli Dalla Via fanno all’opera e al mondo di Andrea Pazienza. Lavoro senza dubbio interessante, che riprende le invenzioni linguistiche e stilistiche di Pazienza, con giochi acidi e pastiche onirici che si intrecciano alle composizioni ritmiche e cantate del collettivo Gold Leaves, trascinanti hiphoppers vicentini. Però l’impianto, così frontale, non sembra ancora ben rodato, la dinamica risulta meccanica, ci sono cali di tensione nella ossessiva ripetizione di alcuni schemi. Eppure, quella ricostruzione della Bologna punk degli anni Settanta, degli scontri, delle follie, quella visionarietà drogata scandita da Radio Alice e dalle molotov, si fa ponte con il disagio del contemporaneo. Insomma, c’è un fremito interessante, in Personale Politico Pentothal: lo aspettiamo una volta asciugato e limato.
Resta da dire di altri lavori.
Il primo è la nuova tappa di ricerca del gruppo Oyes attorno all’opera di Cechov. Il povero Anton Pavlov ormai viene rivoltato in tutte le salse e in tutti i modi: come non bastassero i suoi testi, abbiamo sistematiche riscritture, reinvenzioni, attraversamenti, citazioni. Certo che l’opera del russo è quanto mai attuale, ma non sempre gli adattamenti riescono. Se marciava piuttosto bene il Vanja fatto la passata stagione dalla compagnia milanese, con Io non sono il Gabbiano il gruppo diretto da Stefano Cordella è meno incisivo, addirittura manierato. Tutto un flashback, tutto un dopomorti, tutti che cantano Felicità, quello che si spoglia, quella che grida, i falliti e gli speranzosi, i baldanzosi e i mesti, le barzellette e le profondità filosofiche: insomma, fatta fuori Arkadina, resta un piccolo mondo da balera, a parlare di nuove forme di teatro senza però ottenerle. Aspettiamo fiduciosi il prossimo passo.
Se questi erano alcuni dei giovani in cartellone al Festival Primavera dei Teatri, ci sono poi i grandi, i più maturi. A partire dall’ottimo Oscar De Summa che, dopo aver infilato una serie straordinaria e bellissima di monologhi “provinciali”, si presenta qui con un testo che è immerge lo spettatore in un interno borghese drammatico e nevrotico, ma forse un po’ troppo stereotipato. Una famiglia campione, verrebbe da dire: il padre che scopre l’omosessualità, la madre frustrata e rivendicativa, lo zio cialtrone e alternativo, la figlia protagonista e narratrice, adolescente e scontrosa che sogna di sterminare tutti. Un po’ sopra le righe dal punto di vista interpretativo, La Cerimonia vede in scena lo stesso De Summa con la brava Vanessa Korn, Marco Manfredi e Marina Occhionero (la figlia). Buona l’intenzione, l’esito ancora sotto il livello che ci si aspetterebbe da questi bravi artisti.
Last but not least, Saverio La Ruina che con la compagnia Scenaverticale (nella foto di copertina) firma un altro capitolo, umanissimo e struggente, della sua ricerca personalissima sul tema dell’identità personale e sociale. Chi siamo, come siamo, chi vorremmo essere e come siamo definiti? Tante domande, addirittura pirandelliane, sull’uno e il nessuno sono il nodo di questo Masculu e Fiammina : un uomo confessa la propria omosessualità di fronte alla tomba materna. È un racconto semplice, di piccole cose, di amori sognati e vissuti, di violenza e di incomprensioni, di abbandoni e incontri. Un racconto amaro eppure pieno di speranza, di sottile dolcezza, di poesia: con lo stile interpretativo che ha saputo creare (così sospeso, sottile, con toni e cadenze calabresi ma resi condivisibili) La Ruina firma ritratti di marginalità e quotidianità che sono tessere di una grande storia, frammenti di vita qualsiasi che diventano condivisibili quadri dell’umana tragedia. Commovente.
A Castrovillari era anche Roberto Latini con la sua versione pop del Cantico dei Cantici, firmata con Gianluca Misiti. Ma di questa vi dirò più avanti.
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