Teatro
Festen, tra cinema e teatro
GENOVA. Il male esiste e scorre da sempre nelle fibre più profonde della vicenda umana: gli esiti, oggi, è superfluo ricordarli. Il male, qualunque sia la sua origine, può essere feroce, spietato, spudorato, può avere una dimensione di concretissima e familiare “banalità” o assurgere a una tale gigantesca vastità da tracimare nella metafisica e, in ogni caso, al suo manifestarsi trovare gli uomini sempre e comunque impreparati. Ciò che conta davvero è la nostra reazione al male, la responsabilità che ci assumiamo, o no, nel momento in cui non ci giriamo dall’altra parte e prendiamo posizione. È quanto vien fatto di pensare in margine a “Festen. Il gioco della verità” lo spettacolo della compagnia torinese “Il Mulino d’Amleto” (Premio della Critica 2021) costruito a partire dalla sceneggiatura cinematografica di Thomas Winterberg per il film pluripremiato del 1998 (con gli adattamenti teatrali successivi in ambito inglese e tedesco). La regia è di Marco Lorenzi (che ha curato anche la traduzione e l’adattamento del testo insieme con Lorenzo De Iacovo) e in scena ci sono Danilo Nigrelli (Helge) e Irene Ivaldi (Else, la moglie di Helge) che sono i nuovi innesti della compagnia, Roberta Calia (Mette la moglie di Michael), Yuri D’Agostino (il maestro di cerimonie e amministratore della società di Helge), Elio D’Alessandro (Christian, il figlio maggiore), Roberta Lanave (nei personaggi di Linda, la sorella sucida, gemella di Christian, presente sotto forma di spettro, e di Pia cameriera fedele e segretamente innamorata di Christian), Barbara Mazzi (Helene), Raffaele Musella (Michael, il figlio minore), Angelo Tronca (il nonno, padre di Helge). Siamo in Danimarca e, nel corso della festa di una grande e ricca famiglia altoborghese per il compleanno del patriarca Helge, Christian, il maggiore dei figli, dopo un lungo e doloroso percorso di consapevolezza, denuncia la violenta perversione del padre che per anni ha abusato sessualmente di lui e dell’altra sorella sua gemella, Linda, assente perché “misteriosamente” suicidatasi qualche anno prima. La denuncia di Christian è durissima, coraggiosa, senza appello: ma i convitati provano, ugualmente e reiteratamente, a far finta di niente, ballare, cantare, mangiare, brindare, tentano di far andare avanti ugualmente la festa. E il tentativo ha persino un certo successo, Helge resiste nella hybris del suo potere patriarcale, nella sua violenta e paranoica spudoratezza, la moglie (colpevolmente e abusando di sé stessa) lo sostiene, gli altri provano a negare e lo stesso Christian, eroe a tutto tondo e personaggio tragico (in ogni significato che nei millenni dell’occidente questo aggettivo ha assunto), vacilla. Quando infine vien fuori una lettera di Linda, la figlia suicida, che colloca proprio in quella violenza il motivo per cui ha deciso di farla finita, ecco che la catastrofe tragica si compie: cambia il clima, cambiano le dinamiche di potere e di sottomissione, la scena s’insanguina, entra il veleno della vendetta e infine il quadro si ricompone secondo giustizia. È abbastanza evidente – lo rivela già una prima e persino superficiale considerazione di questo plot drammaturgico – quanto grande, interessante e feconda sia stata l’avventura intellettuale ed artistica di questa compagnia, ormai una realtà consolidata e riconosciuta nel contesto della ricerca teatrale italiana, nel confrontarsi con un testo così denso di senso: l’eterna perversione del potere maschile, visto nella dimensione nella civiltà capitalistica, e una lunga serie di archetipi ancestrali del teatro occidentale che è facile rinvenire nella tragedia classica (dall’Orestea a Edipo Re) e, per li rami, ad esempio in Shakespeare (Amleto, soprattutto) in Ibsen e in alcune pagine favolistiche tra le quali viene scelta (e messa proprio in apertura) la fiaba di Hänsel e Gretel. Eppure appare altrettanto evidente che il rovello su cui ruota questo spettacolo non è dato soltanto dalla sua leggibilità nella contemporaneità, ma è un altro, un altro sin dalla prima battuta: il nodo da proporre al pubblico e su cui agganciarne l’esperienza dello spettacolo è la “responsabilità”. La responsabilità di quella famiglia di fronte al male della violenza del patriarca, di fronte alla sua sordida perversione, la responsabilità di fronte alla forza della menzogna e alla fragilità della verità, la responsabilità nostra di fronte all’accadere del male. Ecco, sembra essere questo il motivo principale e, a dirla tutta e con diretta semplicità, sembra risiedere in esso anche la sostanza della scelta formale che domina la messinscena, ovvero l’uso di una telecamera mobile che, mentre lo spettacolo si dipana nella scena, riprende e proietta ingigantendoli su uno schermo a che a mo’ di cinema copre tutto il boccascena, volti, immagini, espressioni, scene intere, particolari rivelatori. Fino alla fine, quando lo schermo crolla e, non a caso, resta il nudo teatro sulla scena. Il tutto in una sintassi scenica che mette in ordine ogni elemento secondo una precisa esigenza: stimolare il pubblico “epicamente” – direbbe qualcuno – a riflettere sulla giusta distanza morale e politica tra noi e il male. Un modo per spingere il pubblico a ragionare criticamente su quanto sta osservando, a collocarsi alla giusta distanza e a interrogarsi “politicamente” sul coraggio di scegliere la strada della ribellione al male e alla violenza. Non si tratta di una novità formale certo, ma sono notevoli la maturità e la consapevolezza con cui viene utilizzata (seppur con qualche eccesso di entusiasmo) questa tecnica: la riflessione sull’estetica e sulle conseguenti regole cinematografiche del movimento “Dogma 95” (Lars Von Trier e Winterberg, Søren Kragh-Jacobsen, Kristian Levring), la riflessione sulla ripresa di un’immagine come fatto e atto responsabilmente politico e infine (non per ultima, certo) la riflessione sulla possibilità che teatro e cinema dialoghino e trovino nella prassi artistica un terreno di espressione comune e necessario. Non è poco. Così come sono notevoli gli attori e le attrici in scena, non tanto per le singole prove attorali (che sono senza dubbio importanti), ma soprattutto nella capacità “di compagnia”, ovvero corale, energica e ben rodata, di stare in scena di agire tutti insieme (e responsabilmente) lo spettacolo. Visto il 9 aprile, nel Teatro “Ivo Chiesa” nel contesto della stagione del Teatro Nazionale di Genova.
“Festen. Il gioco della verità” uno spettacolo de Il mulino d’Amleto
Testo di Thomas Vinterberg, Mogens Rukov & BO Hr. Hansen. Adattamento per il Teatro di David Eldridge. Prima produzione Marla Rubin Productions Ltd, a Londra. Per gentile concessione di Nordiska ApS, Copenhagen. Versione italiana e adattamento di Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi. Con Danilo Nigrelli, Irene Ivaldi e (in ordine alfabetico) Roberta Calia, Yuri D’Agostino, Elio D’Alessandro, Roberta Lanave, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Angelo Tronca. Regia Marco Lorenzi. Assistente alla regia Noemi Grasso. Dramaturg Anne Hirth. Visual concept e video Eleonora Diana. Costumi Alessio Rosati. Sound designer Giorgio Tedesco Luci Link-Boy (Eleonora Diana & Giorgio Tedesco). Consulente musicale e vocal coach Bruno De Franceschi. Produzione TPE – Teatro Piemonte Europa, Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro delle Briciole Solares Fondazione delle Arti in collaborazione con Il Mulino di Amleto. Foto di scena di Giuseppe Di Stefano.
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