Teatro

“Festen”, che rabbia! Ma quello del Mulino d’Amleto graffia di più

18 Marzo 2024

CAGLIARI _ “E’ colpa mia se mi sono capitati figli così incapaci?”

“Io non sono mai riuscito a capire perché l’hai fatto. Perché lo hai fatto?”

“Eravate buoni solo per quello”.

L’orco getta la maschera stizzito, come un gesto estremo di ribellione alla verità, rivelando così la profondità dell’abisso infernale nel quale ha cacciato per anni i figli da lui abusati. Tutto accade nella magnificente villa dei Klingefeldt, casata alto borghese danese usa a nascondere i propri vizi e così in un attimo si finisce dritti dentro una tragedia shakespiriana. Eh sì come affermò per primo, da queste parti Marcello, guardia del re e compagno d’arme del principe Amleto, conversando con Orazio alla fine della quarta scena del primo atto della tragedia di Shakespeare: “Something is rotten in the state of Denmark”… Con il tempo questa è diventata locuzione per indicare luoghi e contesti dove si incrociano complotti e congiure, trame oscure, intrighi e segreti inconfessabili. Tre secoli dopo riecheggia – sempre profondo Nord (!) – nel film “Festen” di Thomas Vinterberg, al quale è andato il Premio Speciale della Giuria al festival di Cannes del 1998. In un interno famigliare d’alto bordo Helge, padre magnate e pedofilo il giorno della festa per il suo sessantesimo anniversario, è accusato dal maggiore dei figli, Christian, di avere abusato di lui e della sorella Linda, che poi si suiciderà (gli altri fratelli, presenti alla festa sono Michael ed Helene). La stessa sceneggiatura, (di Bo hr. Hansen) ripresa anni dopo dal regista Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo, autori di traduzione e allestimento, sarà la base per dar vita alla versione teatrale.

L’arrivo di parenti e amici alla villa di campagn del magnate  danese Helge di cui si festeggia il sessantesimo compleanno (Foto Giuseppe Di Stefano)

Messa in piedi in tempi di Covid è un’opera di insolita forza espressiva grazie anche a un cast d’attori coeso e affiatato quello della compagnia torinese del Mulino d’Amleto. Uno spettacolo che, dopo il debutto ad aprile del 2021, continua da anni a riempire le sale raccogliendo un caloroso consenso di pubblico (com’è accaduto pure nei giorni scorsi al Teatro Massimo di Cagliari dove è approdato per iniziativa del Cedac). Forte e definitivo il “Festen” teatrale va oltre il film stesso. Nulla viene dato per scontato per scontornare una impietosa fotografia di una lotta per il potere senza esclusione di colpi. Inevitabile tornare quindi dove tutto ha inizio, la culla dei ricorrenti incubi. O fantasmi, come quelli che appaiono sulle mura del Castello di Elsinore, segno esterno del marciume originato dai crimini di Claudio? Spettri come quello di Linda, la giovane suicida, appaiono e scompaiono come una spada di Damocle sospesa sulla sontuosa festa borghese scintillante per i calici di cristallo e le risate. Si sfidano le leggi del tempo e dello spazio per ritrovare l’universo parallelo dove ha avuto origine quel male oscuro depositatosi nelle stanze dei ricordi parte di una regressione, che si spinge giù, fino all’infanzia.

Inevitabile naturalmente, tentare un confronto tra due lavori che, a parte una esile trama, i personaggi e una generale accusa a un sistema di potere, non pare condividano molto tra spettacolo e film. Fuori di metafora, se quest’ultimo sembra prendere tanto dal teatro, viceversa, non così avviene nel caso dell’allestimento.

Occorre ricordare intanto come l’autore del film segua i dettami di “Dogma 95”, manifesto di un gruppo di cineasti, primo tra tutti Lars Von Trier, nato forse con intento di ricreare un nuovo spirito sperimentale. I firmatari girano senza artifizi speciali, per poi gonfiare il video in pellicola 35 millimetri.

In “Festen” del Mulino d’Amleto con la regia di Marco Lorenzi elementi di cinema con riprese girate dagli stessi attori e proiettate su un velo (Foto Giuseppe Di Stefano)

Nello spettacolo del Mulino d’Amleto, al centro della scena – uno spazio aperto in cui gli attori si muovono occupandolo per intero – c’è un telo, meglio un velario, dove si proietta in tempo reale lo spostamento dei personaggi, fermandoli in primi piano o primi piani americani con un uso squisitamente teatrale del mezzo cinematografico. Altra è la sintassi, altra è la grammatica. La presenza della camera digitale (utilizzata a turno dagli attori) non è cioè finalizzata a costruire ambiguamente un racconto cinematografico.

Il “Festen” di Vinterberg ha invece una singolare tendenza a teatralizzarsi. Sarà per quella vocazione spartana indicata dal manifesto, senza luci, filtri o effetti speciali che privilegia il “girare” con la camera digitale a mano. Nei fatti accade però, ad esempio, che molte scene del film siano scarsamente leggibili per via di un buio predominante e ridondante. Per non parlare della difficoltà, per gli stessi motivi, di mettere a fuoco i personaggi Molte possibilità del linguaggio cinematografico se non perse appaiono quanto meno poco decifrabili.

Al contrario il “Festen” del Mulino d’Amleto è teatro al cento per cento. Anche le scene dei dialoghi ravvicinati dalla telecamera e proiettati sul telo rafforzano l’atto performativo di quello che cinematograficamente altro non è che un lungo piano sequenza alla maniera di Godard.

C’è da dire che ne guadagna il ritmo e la velocità di pensiero. Arricchisce lo sguardo di diversi punti e prospettive, rafforzando il sapere degli attori protagonisti in prima persona di quello che appare come un esperimento di combat theatre ad alta energia. Con gli attori impegnati in un continuum coreografico che tiene sospesi sul filo come se nel Titanic danzassero sull’orlo dell’abisso.

Roberta Lanave interpreta il ruolo del fantasma di Linda, la sorella di Christian (che si suiciderà) vittime entrambi delle violenze del padre orco e pedofilo (Giuseppe Di Stefano)

Nell’atmosfera ovattata, fatta di falsi sorrisi e ambigui complimenti, l’arrivo nella dimora principesca della casata dei Klingefeld di parenti invitati a omaggiare il patriarca, il figlio Christian si appresta a smontare l’architettura di una vita bugiarda e meschina dell’orco. Si sta sempre al Nord. Sembra di assistere a scenari familiari descritti in modo implacabile e crudele dall’arte teatrale dello svedese Lars Norén, scomparso appena tre anni fa, autore di opere come “La notte è la madre del giorno”(1982) dove la famiglia è il centro del conflitto, dello scontro tra persone normalmente legate da affetto e le cui problematiche di repressione esplodono invece con grande rumore. Una struttura simile anche nel successivo “Autunno e inverno” (1988) dove il tema del conflitto è ancora più centrale e si manifesta più insinuante. In entrambi i casi si vede senza veli un Nord acido, fatto di parenti che si massacrano e famiglie che vanno al macero. Quadri di vita certamente non rassicuranti dove sullo sfondo sembra riemergere la vis drammatica di uno Strindberg, intimamente legata a quella lezione di realismo drammatico di un grande come Ingmar Bergman che ha segnato a teatro e, forse maggiormente nel cinema più di una generazione.

A far salire la temperatura è il discorso di auguri di Christian che svela minuziosamente come il padre abusasse di lui e della sorella con la madre a girare lo sguardo da un’altra parte. La bomba, prima di esplodere, sembra stare congelata a mezz’aria per un attimo. Un tempo sospeso nell’incredulità e nell’imbarazzo: il tentativo è di volgere in farsa o tacciare di eccentricità Christian che, come Amleto, intende mostrare il re nudo. Cresce la tensione, l’azione teatrale diventa gioco al massacro, caduta delle maschere della commedia e svelamento dei mostri. Il gioco della doppia verità è finito. C’è un senso tragico che rimanda alla notte dei tempi, un vortice oscuro che si impadronisce della vita dei presenti, ne modifica per sempre le traiettorie. Il confronto diventa così stretto e pressante tra due piani e livelli di recitazione, un corpo a corpo tra campo lungo e primo piano. L’occhio dello spettatore intreccia lo sguardo di chi riprende impietosamente da vicino i protagonisti del dramma mentre la scena finisce progressivamente in un turbillon di emozioni, stupore e rabbia. Christian – che nel frattempo rivela attitudine d’artista offre un ispirato “solo” chitarristico indie – evviva anche in Italia c’è qualche teatrante che sa pure fare musica! – ci mette infine il carico da novanta accusando il padre di essere stato anche la causa del suicidio di Linda, che come lo spettro di “Amleto” appare e scompare dalla scena come micidiale memento mori lasciando in eredità una ultima micidiale lettera che conferma le accuse rivolte dal fratello al padre che irato e sconvolto abbandona la scena.

L’attimo in cui Christian interpretato da Elio D’Alessandro rivela ad amici e parenti le violenze subite assieme alla sorella Lindia da parte del padre Helge (Foto Giuseppe Di Stefano)

L’allestimento non è lineare anzi, a tratti è persino messo in pausa da episodi da melodramma, improvvisi eclat de rire, che sembrano stemperare il clima come lo scambio di giacche e cappotti, la discussione surreale sui quarti di votazione necessari per accedere a una loggia massonica o il siparietto tra Michael, il fratello minore, e la moglie incinta che, esaurita la benzina della loro auto si stanno recando a piedi verso la ricca magione. Momenti di leggerezza che rasentano la follia e il no sense come quando all’inizio si chiede agli spettatori quale dei due copioni vorrebbero si rappresentasse: quello giallo o quello blu? Naturalmente il pubblico di tutto questo ben poco sa… ma nei fatti è una chiamata di correo: come dire che siamo tutti complici e coinvolti. Ancora una volta è un rinvio al nocciolo del dramma: Helge infatti costringeva i figli a un simile perverso gioco prima di violentarli. E non si dimentichino gli esordi favolistici preparatori con il richiamo della fiaba nera di Hans e Grethel dei Fratelli Grimm…

Insomma il “Festen” del Mulino di Amleto è un’opera a tutto tondo che cresce nel suo dispiegarsi. C’è un rapporto straordinariamente maturo e adulto tra teatro e tecnologie digitali, utilizzate senza alcuna sudditanza o paura nell’uso dei mezzi, come pochissimi hanno la capacità in Italia.

Festeggiato, parenti e amici sono colti in impazzo per le rivelazioni di Christian a cui sembrano non dare corda a “Festen” del Mulino d’Amleto (Foto Giuseppe Di Stefano)

Sul fronte dei contenuti si rivela un grande contenitore di vita. Anzi, abbracciandola interamente la restituisce per come è: con le sue pieghe e contraddizioni. Il cuore è certamente il dramma del padre orco e uomo di potere che abusa dei figli, ma vi abita anche lo scontro generazionale, la voglia di fuggire un destino predestinato (vedi Christian) e quello di affermare la distanza “politica” di una generazione in fuga.

In “Festen” versione teatrale, va affermato, che mostra qualità di livello internazionale, il ruolo degli attori è naturalmente centrale. E in questo caso il cast è di prim’ordine con un solido affiatamento. Dal padre orco Helge interpretato in modo preciso da Danilo Nigrelli al figlio Christian che fa scoppiare lo scandalo, il talentuoso Elio D’Alessandro che offre anche un saggio della sua abilità nella chitarra psichedelica in un intermezzo. Una nervosa Helene sempre sul punto di esplodere interpretata con sicurezza da Barbara Mazzi. Nel ruolo del figlio Michael è invece il bravo Raffaele Musella: la sua lotta fisica in finale con il padre è violenta e convincente anche se non catartica (per inciso in questo “Festen” la catarsi proprio non esiste a prescindere). E’ una presenza da cui non si può prescindere in questo allestimento quella di Roberta Lanave , inquietante nel ruolo del fantasma di Linda. Efficace il nonno Angelo Tronca come Yuri d’Agostino che impersona il ruolo di Helmut, l’amministratore dell’azienda di Helge, Carolina Leporatti nella parte di Mette, la consorte di Michael e una fredda e distante Irene Valdi in quelli della madre Else.

“Festen” si replica questi giorni tutte le sere fino al 24 marzo al Teatro Bellini di Napoli.

Il cast d’attori in una delle ultime scene dello spettacolo drammatico  “Festen” del Mulino d’Amleto, regia di Marco Lorenzi (Foto Giuseppe Di Stefano)
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