Teatro
Faust, Otello, Eva e altri: gli spettacoli a volte ritornano
Che poi a fare questo strano mestiere del critico teatrale accadono a volte cose buffe. Ad esempio: ricordarti di tutti gli spettacoli di cui non hai scritto. Perché succede che quando chiudi un articolo lo consegni alla stampa o al web, lo spettacolo di cui hai parlato si resetta nella memoria e nel cuore, si archivia, lascia spazio per altro. Ma quelli di cui non si è scritto rimangono, almeno per me, in stato latente, quasi in dormiveglia: girano per la testa e continuano a porre domande. Allora, in questo inizio anno – quando di solito si fanno bilanci e buoni propositi (ma quali?) – mi son trovato invece a fare i conti con quelle tracce luminescenti che per un motivo o per un altro brillano ancora. Cose strane, diverse per stili, modalità, esiti, prospettive, ma in ciascuno vi sono motivi di interesse, guizzi di brillantezza o genialità.
Poi vabbè, ci sono anche i lavoracci, quegli spettacoli messi su in fretta o malamente, quelle cosette ambiziose o furbette, quelle operazioni che tanto pensano al botteghino e che poi svelano un respiro artistico breve: meritano ogni attenzione, e semmai una qualche stroncatura, ma adesso possiamo tralasciarle, no?
Allora, in ordine sparso, mi piace tornare con la memoria a una sera passata al Teatro dell’Orologio di fronte a una rilettura di Otello tra il farsesco e il (melo)drammatico, una versione “all’antica italiana”, imbastista di belle canzoni popolane e di un’aria da squassate periferie pasoliniane. Era O come Otello, con la regia – divertita e divertente – del bravo Alessio Pizzech: uno “scherzo”, vorrei dire, un gioco di rimandi e citazioni, in cui il classico shakespeariano viene spezzettato in un “tradimento” drammaturgico di Carlo Di Maio, anche protagonista con la ‘sciantosa’ Rossana Bellizzi e con Francesco Iaia e Gianluca Patosti. Insomma, un buffo pastiche schietto e immediato, con momento esilaranti.
E divertente, molto, è stata anche la standup-comedy proposta da Gianpiero Borgia con Sudorazione. Si tratta di un monologo dissacrante sul Sud e i suoi abitanti, anzi per la precisione: su Barletta e sui barlettani. Ma raccontando la storia, forse autobiografica, di un aspirante attore-regista-autore di ritorno al paese d’origine, Borgia spiattella sapientemente tanto, se non tutto, il malcostume incancrenito e la tolleranza delle dinamiche sociali, economiche e culturali di certo Sud Italia.
E ancora mi torna in mente la straordinaria Federica Fracassi, che firma una incredibile prova delle sue in Eva, tiratissimo monologo prodotto da Teatro i di Milano, scritto da Massimo Sgorbani e diretto con lucida freddezza da Renzo Martinelli. Testo inquietante e straniante, che dà voce a Eva Braun, donna innamorata e devota di Adolf Hitler: la Fracassi è travolgente nell’incarnare questa figura complessa, discutibile, detestabile, sospesa tra Via col Vento e il culto del Fürher. Lavoro intenso e delicato, contraddittorio e toccante, Eva fa parte di un percorso di indagine su queste figure femminili (di cui apprezzai molto Magda e lo spavento) che Sgorbani traduce in scena con una scrittura aguzza, fatta di flussi verbali oscillanti tra estrema intimità e paradossale follia postmoderna, impastati sapientemente nella fisicità di un’attrice come Fracassi che certo non si risparmia nel dare vita e presenza al tessuto verbale.
Poi, per chiudere questo primo giro di ricordi più o meno recenti, ecco Faust’s Box, operina superconcettuale e raffinatissima di Andrea Liberovici. Di questo compositore-regista-autore avevo già amato la rilettura e riscrittura del Macbeth, affidata a due giganti come Elisabetta Pozzi e Paolo Bonacelli. Con questo Faust, visto al Teatro Duse di Genova, Liberovici conferma un momento di grande e felice creatività. Avevo presentato lo spettacolo, in una chiacchierata con l’autore (qui), ma la resa scenica ha svelato aspetti ulteriori, decisamente intriganti. Mi piace quanto e come Liberovici non scenda a compromessi, lavori puntando a un orizzonte alto, affronti sonorità, riferimenti, rimandi che chiamano in causa un percorso nel concettuale della ricerca musicale e teatrale. Anche qui, complice la straordinaria voce e presenza scenica di Helga Davis, il regista allestisce una storia che oscilla – come fu per Macbeth – tra una casalinghitudine quotidiana (facendo risuonare anche degli elettrodomestici) in cui Faust si sdoppia nel suo contraltare mefistofelico, e l’eterno ritorno del mito che si fa pura poesia. Ma non vi è elitismo né autoreferenzialità nello spettacolo, che anzi si traduce in un evento di grande, empatica ed emozionante, fruibilità. L’impeccabile Ensemble strumentale Ars Nova, diretto da Philippe Nahon, è parte integrante dell’allestimento scenico, vivace elemento drammaturgico oltre che intenso piano lirico-emotivo che dà spessore, grazia e stridente contrappunto al racconto della Davis. Dopo il debutto parigino, lo spettacolo è passato per troppi pochi giorni a Genova: varrebbe la pena riprenderlo, anche in contesti festivalieri e musicali.
Infine, vorrei raccontare di due spettacoli visti ad Atene: un Tartufo di Molière, in una visione grottesca e ribaltata, e le “versioni” di Fedra interpretate impeccabilmente da quella leggenda che risponde al nome di Isabelle Huppert, qui diretta da Krzysztof Warlikowski. Ma questi, semmai, un’altra volta.
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