Teatro
Familie: La lotta per non soccombere all’Impero
Ho affrontato, in rapida successione, due opere di Milo Rau. Il film The new Gospel, al Lido di Venezia, evento della sezione Giornate degli Autori, e poi, passato qualche giorno, ecco al sempre importante Romaeuropa Festival lo spettacolo Familie, che conclude una possibile “trilogia sulla violenza”, composta dai bellissimi Five easy pieces (sulla pedofilia) e The repetition (sulla omofobia, in questi giorni anche al Festival Contemporanea di Prato), lavori straordinari che pure ho avuto il piacere di vedere.
Vorrei provare, allora, a ragionare attorno a questi due eventi, ovviamente collegati nella prospettiva autorale, per continuare quella discussione critica che ogni lavoro del regista svizzero invita a fare. “Essere critici non basta”, ha scritto recentemente Rau su queste pagine. E forse è vero a più livelli: non basta limitarsi a criticare, ma occorre sempre più agire e semmai “agire criticamente”.
E non basta scrivere “recensioni”, occorre ragionare, riflettere e ampliare le complessità. Difficile essere interlocutori adeguati, visto che si ha a che fare con una delle menti più vivaci della scena europea. Ma ad esempio si può leggere il bel numero della rivista Stratagemmi interamente dedicato al maestro. Insomma, serve provare.
La prima cosa da dire, però, è tutt’altro che “critica”, anzi è una metafora popolare e forse faziosa: come cantavano i Baustelle, “non abbiate pietà, una mazza da baseball, quanto bene gli fa”. Ecco, Rau non ha pietà. Sorridendo, ci prende a randellate e per “ci” intendo ovviamente noi spettatori. Per quanto d’accordo, per quanto solidali, curiosi e disponibili, per quanto sensibili possiamo essere e dunque “vicini” empaticamente alla proposta, gli spettacoli sono sportellate in faccia. Docce fredde per svegliarci. Ci svegliamo? Non sempre, ovviamente. Ma sicuramente usciamo da teatro indolenziti assai, turbati, con un’ansia di interrogativi.
All’Argentina, per il REF, o alla Sala Perla, per le Giornate degli Autori, c’era chi si indignava, chi sbuffava, chi taceva emozionato, chi piangeva calde lacrime. Singulti e sospiri accompagnano spesso gli spettacoli di Rau: non per banale melodramma, quanto per la sapiente capacità del regista di declinare il pathos tragico nelle forme contemporanee della rappresentazione. Le sue sono tragedie sempre minimali e grandiose, private e collettive, messe in scena con uno smaccato svelamento dalla finzione e della rappresentazione.
Non fa eccezione Familie, che ripropone in blocco l’estetica cara alla Schaübhüne di Berlino – video, schermo, riprese in diretta, dettagli – e già adottata da tempo dallo Svizzero. Ma questo gioco tecnologico, che contemporaneamente distanzia e avvicina, è strumentale alla narrazione, mai gratuito effetto estetico. Si può essere d’accordo o meno, ma il piano drammaturgico comunque funziona: la struttura è sempre pulita, financo didascalica, addirittura didattica – che non è un insulto, pensando a Brecht. Insomma, nel suo correre verso una nuova Storia del teatro, Milo Rau gioca diligentemente le sue carte, e sapientemente sa dove e come randellare. Uno dei suoi scopi sembra essere lo smascheramento delle fandonie politiche, delle false credenze indotte e diffuse, delle paure e delle reticenze.
La cosa interessante, e qui provo ad avviare il ragionamento, è che, secondo me, il regista sta mostrando, di nuovo con impeto brechtiano o quanto meno evocativo di Peter Weiss, come una drammaturgia originale possa cimentarsi con quello che Toni Negri e Michael Hardt, sulla scia di Focault o Giorgio Agamben e anticipatori di Han, chiamavano “Impero”: Impero è un libro, trattato politico e filosofico, come è noto lungimirante, realista, certo non distopico.
Ecco, mi sembra che Rau continui a investigare le conseguenze, i riflessi, del “nuovo ordine mondiale” (per citare il sottotitolo di Impero). Impero compiuto, asfissiante. Sempre più pericoloso. Allora è paradossalmente possibile accostare The new Gospel a Familie.
Là, nella rilettura della Passione di Cristo, si avverte la forza dirompente di un messaggio ancora vivo e vero, rivoluzionario nella sua integerrima e straordinaria novità. A portare la Parola è un Gesù nero e sindacalista, gli apostoli sono immigrati, la povertà evidente e testimoniata è una ferita che devasta lo spettatore. Rau svela quel che tutti sapevamo: il caporalato, lo sfruttamento, le mafie, la malapolitica. Ma tutto è nuovo, amaramente vero. Raccontando del Figlio di Dio sa mettere in primo piano la vita dei povericristi dimenticati e osteggiati. È una possibile rivolta all’Impero, in nome di valori – la solidarietà, l’uguaglianza, la fratellanza – tanto cristiani quanto socialisti. Combattere il Biopotere si può e si deve: Rau ci invita a prendere consapevolezza e, ancora, ad agire.
Di qua, nel dramma senza senso di una famiglia per bene, fatta di persone care, intelligenti, colte, affettuose, c’è invece il risvolto della medaglia, il senso di colpa e di fallimento. Qui si chiama in causa la presunta responsabilità individuale, indotta dal controllo dell’Ordine globale. Siamo tutti aziende, individui produttori. Se non riusciamo ad avere una vita “all’altezza” ci auto-colpevolizziamo, ci puniamo. È il nostro fallimento. Raramente arriviamo a dire che il sistema è sbagliato (come invece fa Gesù-Yvan Sagnet nel Nuovo Vangelo), semmai avvertiamo il disagio del nostro, privato, insuccesso: siamo noi ad essere sbagliati.
Ecco allora il gesto lucidamente folle e condiviso della famiglia di Calais, millimetricamente riproposto in scena dalla famiglia teatrale di An Miller, Filip Peeters e delle loro figlie Leonce e Louisa (bravissimi). Una famiglia qualsiasi, borghese, una casa bellina come tante – al punto che sarà presto riacquistata nel libero mercato immobiliare –, all’interno della quale esplode la sofferenza. Il senso di colpa e il tentativo di redenzione, chiamati in causa nelle note finali dello spettacolo, sono dunque i fattori primi dello scavo drammaturgico. Gli attivatori del discorso. Perché viviamo con il senso di colpa? Quando abbiamo sbagliato?
Pare che non ci sia via d’uscita, sotto l’Impero: accettare o annientarsi. Invece, forse, si tratta di prendere posizione. Con il teatro, innanzi tutto. E appena si può ovunque ci sia uno spazio utile all’azione critica.
E qui si apre l’ultima questione che abbraccia da un lato la “democrazia diretta” e dall’altro lo spirito della rivolta. È noto, Rau, come altri registi, ingaggia “testimoni”, ossia attori non professionisti – come nel Vangelo – oppure professionisti che in qualche modo entrano in causa della storia – come la famiglia di Filip Peeters e An Miller, per il solo fatto di essere una famiglia. Dunque sfida la mediazione interpretativa dell’Attore e dell’Attrice per convenire su terreni immediatamente riconoscibili. Ecco allora la dialettica tra democrazia diretta o rappresentativa, che pure tocca altri maestri come Stefan Kaegi, Roger Bernat e altri. Anche qui, però Rau scombina le carte, cambia prospettiva, gioca, smonta e rimonta: perché in fondo lui semplicemente “mette in scena”, rappresenta, mostra anzi il gioco del teatro in tutta la sua essenza e possibilità. Ci sono istanti sospesi, in ogni spettacolo, di puro teatro. Insomma, Rau sembra aggirare i meccanismi dello spettacolo eppure lo dà, lo crea, lo condivide apertamente con il pubblico. Noi piangiamo, loro semplicemente recitano. Come è sempre nel grande teatro.
L’altro elemento: Rau è un rivoluzionario? Sicuramente sì, quando va a Mosul, in Amazzonia, in Congo. Quando allarga all’inverosimile le maglie della drammaturgia e della produzione. Altre volte potremmo però pensare a lui come un concreto riformista, qualcuno che – come scrisse Pasolini di Bertolt Brecht – tenta una rivoluzione con gli strumenti del teatro, all’interno del sistema teatrale. Di fatto, Milo Rau dirige un importante teatro Nazionale, fa parte della élite degli artisti europei: eppure, costantemente cerca il cambiamento, la riforma dall’interno. Poi, alla fine, restano le sportellate, le randellate al pubblico: ecco il gioco. Salvifiche direi. La cosa bella, per chi come me va a teatro ogni sera da decenni, è continuare a sorprendersi, avere il privilegio di imbattersi in mondi, possibilità, tensioni che rinnovano il senso e la forza del teatro. Alla Mostra del Cinema o al Romaeuropa Festival, Rau invita caldamente, appassionatamente, duramente ogni singolo spettatore a non stare alle corde, a non incassare passivamente le gragnuole di subdoli colpi – questi sì, davvero inaccettabili – di un Impero sempre più nero.
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