Teatro

Expo (1942): gli sgomberi, il fascismo, la speculazione

13 Giugno 2015

Arriva come una bomba questo L’esposizione universale, testo scritto nell’immediato dopoguerra e pubblicato negli anni cinquanta da Luigi Squarzina. E come un potente residuato bellico, traccia fossile, sotterranea di quell’epoca contraddittoria, viene fatto brillare nel momento più opportuno dal regista Piero Maccarinelli.

La deflagrazione è potente, inattesa e, lo dico sinceramente, davvero sorprendente. Perché in quel vecchio copione di allora, in quella storia tratteggiata febbrilmente con uno spirito ormai lontano, vibra una devastante e incisiva attualità.

L’esposizione universale è un racconto ampio, corale, che torna come denuncia di un sistema segnato dalla miseria dei molti e dalla ricchezza dei pochi, allora e sempre minato dall’arrivismo, dall’opportunismo, dall’interesse privato che prevale sulla solidarietà e sull’uguaglianza. Ad ascoltare le parole scritte da Squarzina, e a lungo censurate, vien chiaro che l’Italia – fascista e postfascista – si fonda sulla prevaricazione e sulla sistematica, ottusa, micidiale, violenta legge del più furbo.

 

L'esposizione universale, di Luigi Squarzina; foto di S. Amato
L’esposizione universale, di Luigi Squarzina; foto di S. Amato

Per quanto sia generalmente contrario alle trame, tocca riassumerla, questa vicenda, che è una pagina recente e brutalmente quotidiana di “storia patria”, troppo in fretta dimenticata, soprattutto da quanti, e sono tanti, si scagliano cinicamente contro i nuovi accampati e gli immigrati o contro chi occupa (magari per fare cultura e riqualificare pezzi di città).

La storia racconta di un gruppo di sfollati italiani – italianissimi – che, finito il conflitto, vive nel cantiere di quello che avrebbe dovuto essere il quartiere Eur.

Il mito mussoliniano della nuova Roma, con tutta la retorica dell’Impero e del lustro nel mondo, franava sotto i colpi della guerra mondiale: e Roma faceva i conti con se stessa, tra le macerie dei bombardamenti e gli sfollati, i baraccati provenienti da ogni angolo d’Italia. Erano occupanti, allora come oggi, erano “morti di fame”, senzatetto, disoccupati che condividevano miserie e speranze: adattandosi a sopravvivere in quello spazio promiscuo, senza perdere la propria dignità, ma mantenendo la forza e la voglia di combattere per il lavoro, contro il padrone, per i propri diritti.

Mescolando dialetti e toni (dal romanesco al siciliano) questo formicaio d’umanità è il nucleo delle microstorie intrecciate da Squarzina, dove c’è spazio per piccoli e grandi drammi: la vedova con due figlie a carico, di cui una malata grave; il professore ex fascista che ricorda il figlio morto; la coppia che vorrebbe amarsi; l’idealista ribelle; il fotografo fallito…

L'esposizione Universale, regia Maccarinelli, foto S. Amato
L’esposizione Universale, regia Maccarinelli, foto S. Amato

 

Sono tanti, ciascuno con il proprio fardello di pensieri, ricordi, speranze.

In questo crogiolo di dialetti e di età, si insinua il capitale, la speculazione, che ha le fattezze di uno scrittore mezzo fallito, compromesso con il regime, ma già “ricicliato”, già salito sul carro della nuova democrazia. Lui avrà l’intuizione di speculare, incurante del destino di quei profughi, mettendo in piedi una cordata internazionale appoggiata dalla politica per far partire la ricostruzione e la lottizzazione del quartiere. Corrompendo, comprando, ricattando, incitando la polizia: si arriva allo sgombero dei palazzi occupati. Per quei miserabili è pronto un campo profughi, Campo Parioli, non importa se le condizioni di vita saranno disumane.

Luigi Squarzina da “intellettuale di sinistra” qual era, non poteva lasciare facile vittoria al capitalismo: c’è una rivolta, anche il corrotto si redime e torna a schierarsi con i suoi compagni, la lotta di classe si fa lotta armata. Ma l’epilogo sarà tragico, per i protagonisti, e sorridente per gli investitori, per le forze dell’ordine, per i benpensanti: l’Italia ripartirà, ci sarà il boom economico, ci saranno i cantieri. L’economia tira, i mercati sorridono.

 

L'esposizione universale, foto di S. Amato
L’esposizione universale, foto di S. Amato

Anche da questo mio racconto raffazzonato delle oltre due ore di storia, si evince quanto L’esposizione universale sia un testo d’oggi, maledettamente e amaramente d’oggi. Nell’Eur disastrato degli anni Quaranta si specchia, senza mezzi termini, la realtà dei tanti centri d’accoglienza che sono diventati lo spauracchio di questo Paese senza memoria. Gli estremi ci sono tutti, no?

Così, parliamo del dopoguerra per parlare del giugno 2015.

La corruzione di “mafia capitale” di questi giorni ha radici lontane, insomma: nulla è cambiato, e sotto le tette della Lupa capitolina sono in tanti a succhiare. Tutti, a destra e a sinistra: tranne i “poracci”, tranne i rivoltosi, tranne quanti si ostinano a occupare o a pensare al bene pubblico.

Gran merito, dunque, al Teatro di Roma diretto da Antonio Calbi e al regista Piero Maccarinelli di aver messo in piedi un progetto articolato, dedicato non solo a Squarzina e all’Expo (già: l’Eur fascista era un Expo, ricordate?) mettendo in rete l’Accademia “Silvio d’Amico” e il Centro sperimentale di Cinematografia, per arrivare a questo allestimento dopo incontri, convegni e pedagogia.

(Ma ci sarebbe molto da ridire sullo stato di semi-abbandono in cui permane il Teatro India. Sono stati fatti alcuni lavori di ristrutturazione, ma ancora molto ci sarebbe da fare: poltroncine scomodissime, niente aria condizionata, foyer sempre tristanzuolo, esterni incolti)

 

L'esposizione universale; foto di S. Amato
L’esposizione universale; foto di S. Amato

Detto del plot, resta dunque da dire dello spettacolo: che riprende, senza dubbio, il clima di allora. Era un teatro “neorealista”, quello di Squarzina, con lo stesso afflato di denuncia sociale e politica: quasi il primo teatro “politico” italiano.

In quegli anni Cinquanta, gli Stabili non pensavano tanto al botteghino (come dovranno fare, per decreto, i nuovi teatri Nazionali) quanto a realizzare teatro d’arte per tutti, con un forte sapore civile. Dal Piccolo – con i memorabili allestimenti strehleriani di El Nost Milan, o di Albergo dei poveri, cui questo spettacolo fa pensare non poco – passando per Torino e Genova, gli Stabili erano centri propulsori di pensiero.

Certo, lo “stile” di quell’impegno è datato, ridondante, a tratti retorico e melodrammatico, ma questa rinnovata versione di L’Esposizione Universale regge al tempo.

Maccarinelli, rispettando il dettato del testo, tiene il ritmo della narrazione, la rende avvincente addirittura, ricca di pathos, asciugando dove occorre e limando quando necessario. Lo spazio scenico è un accatastamento di praticabili su più livelli, affollati di letti a castello, di trovarobato: i materiali – legno, zinco, tela – sono grezzi e poveri; solo sul fondo dei grandi schermi dove si proiettano gli “esterni”, ovvero l’Eur com’era a completare la scenografia.

L'esposizione universale; foto di S. Amato
L’esposizione universale; foto di S. Amato

La regia si avvale soprattutto di un bel gruppo di attori e attrici, che voglio citare, perché da ciascuno viene un contributo considerevole sul piano emotivo e sentimentale: e non poteva essere altrimenti in questo lavoro dal forte respiro corale.

A partire dai due finissimi protagonisti Luigi Diberti e Stefano Santospago, figure polari che incarnano conflittualmente il rapporto con il potere passato e futuro; a Giulio Maria Corso, un Amedeo Nazzari che attraversa tutte le fasi e le laidezze della vicenda; a Roberto Caccioppoli, bravo nel tratteggiare la figura di eroe-non eroe. E ancora da seguire la brava Antonietta Bello, una Nora isterica, viziata e capricciosa quanto basta da caderne vittime; la struggente Maria Teresa Campus, nel ruolo di Elli, dolente figura di giovane donna compromessa ma idealista, vera colonna di tutta la storia; e ancora la bravissima Alice Spisa, che conferma tutte le sue capacità e Sara Pallini, attrice dal sapore antico.

Con loro, con contributi di natura (e incisività) diversa sono presentissimi Barbara Chichiarelli, Paride Ciriello, Vincenzo D’Amato, Gregorio De Paola, Carmine Fabbricatore, Michele Lisi, Pietro Masotti, Alessandro Meringolo (il poliziotto corrotto ma sicuramente in carriera), Stefan Scialanga (bravo), Nicola Sorrenti, Jacopo Uccella.

Eccolo il mondo dei borgatari: sono gli sconfitti, sono gli sgomberati. A Roma, le cose non cambiano, se non in peggio.

 

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