Teatro

Esiste una “danza sociale d’arte”?

20 Dicembre 2017

Da qualche tempo cerco di osservare e ascoltare, con maggior attenzione, quei territori e quelle esperienze che ho provato a definire “teatro sociale d’arte”. Per intenderci, quell’ambito ampio e difficilmente catalogabile, ma ricco di creatività, che sta contribuendo e non poco alla elaborazione non solo di un rinnovato e diverso modo di fare ricerca ma anche a disegnare un’idea di comunità dai tratti più inclusivi, attenti, sensibili. È a queste latitudini teatrali che si trova sempre più un senso antico e contemporaneo, una motivazione profonda e radicale del fare teatro.

In questa investigazione, mi sono imbattuto nella mia totale ignoranza per quel che riguarda una “danza sociale”. Esiste? Possiamo lecitamente parlarne? Ne ho avuto sentore, certo, anche grazie a spettacoli di eclatante forza e bellezza – penso a Balletto Civile, a Chiara Bersani, ad Antonio Viganò ma anche, perché no?, a certi classici di Pina Bausch! – ma le mie nozioni in questa prospettiva sono davvero lasche. Eppure il corpo è il centro di tutto: il senso e l’uso, la presenza o la negazione dell’elemento fisico sono i tratti primari di qualsiasi “performatività” alle prese con i territori del disagio. Allora, più che opportuno mi è parso ascoltare Anna Consolati, che dal 2007 lavora all’organizzazione del Festival Oriente Occidente di Rovereto e dal 2015 segue i progetti europei. È project manager per Moving Beyond Inclusion, progetto finanziato dall’Unione Europea sulla formazione dei danzatori con disabilità, coordina la rete #unlimited Italia e il sito danzabile.provincia.tn.it.

Balletto Civile, BadLambs, foto di Sarah Melchiori

Allora, Anna, qual è la situazione?

La compagnia leader mondiale dell’integrazione con corpi “altri” è certamente la Candoco Dance Company, ma si moltiplicano le possibilità per creare con persone con disabilità e per entrare nella scena e programmazione generalista. Si pensi all’apertura e alla scelta di Rachid Ouramdane e poi di Emanuel Gat con la danzatrice ex Candoco Annie Hanauer, e al lavoro di Wim Vandekeybus con Sai Gharbi. Ma anche alla scelta “forte” della più grande compagnia di danza indipendente svedese, Skånes Dansteaters – composta da 16 danzatori assunti per 12 mesi l’anno –, che ha deciso nell’ultimo quinquennio di avere sempre almeno un danzatore/danzatrice con disabilità nel cast, per sfidare il gruppo e i coreografi, per alzare l’asticella del dialogo artistico e di ricerca creativa.

Dunque un panorama molto interessante. E in Italia che succede?

La danza contemporanea è alla ricerca di nuove sfide e di nuove avanguardie e la diversità e il confronto con l’Altro è, per la società contemporanea, una tematica forte che trova nella disabilità una sua connotazione. La sfida è soprattutto, per quel che riguarda l’Italia, nelle possibilità di formazione professionalizzante, nella ricerca metodologica e nell’importante confronto nazionale e internazionale. I codici possono variare, l’estetica può andare verso altre estetiche per altri corpi, ma la qualità artistica deve comunque rimanere alta. Il senso pietistico o da super eroi devono essere concetti smarcati da tale pratica. L’obiettivo è di dare la possibilità per chi ha talento e una disabilità fisica, psichica, visibile e non visibile di poter ambire a diventare un artista e a salire sul parco per performare e quindi, in primis, di aprirsi al riconoscimento della diversità insita nella società e alla possibilità che si trovi rappresentata e riconosciuta sul palco, sulla necessità che questo avvenga.

La coreografa Chiara Bersani a lavoro

In questa prospettiva, che lavoro fa il Festival Oriente Occidente?

Un festival come il nostro può essere un modello di ruolo per altre realtà, può stimolare l’apertura verso spettacoli di altro valore artistico che rappresentino e coinvolgano anche persone con disabilità e verso la diversità in senso più ampio. Oltre che alla presentazione di spettacoli. stiamo lavorando soprattutto per l’allargamento della rete #unlimited Italia: una rete che rappresenta un primo passo verso una condivisione delle pratiche e metodologie di lavoro e ricerca, e a nuovi progetti europei che ci permettano di continuare la ricerca formativa e coreografica.

Basta?

In Italia, rispetto soprattutto al mondo anglosassone, manca una cornice legislativa di riferimento che sia legata al mondo della cultura e della pratica artistica e non solo al mondo sociale. Naturalmente di pari passo manca una linea di finanziamento per la pratica degli artisti con disabilità – supportati in UK da 25 anni con specifici bandi. Le strategie formative passano da un ascolto e dall’incontro, dall’accettazione della diversità e dalla conoscenza profonda del proprio corpo e di quello dell’altro. Insomma, da una contrattazione e ridefinizione delle pratiche e delle metodologie della danza contemporanea. Per il mondo italiano, poi, pensando in particolare al pubblico, agli spettatori possibili e reali, è soprattutto necessaria una ridefinizione dell’immaginario legato alla disabilità e di quello che “posso aspettarmi da una persona disabile in scena”, perché quando la qualità dello spettacolo è alta, la disabilità non scompare ma diviene fluidamente parte della messa in scena e di quello che uno spettacolo può rimandare in senso artistico, estetico, emozionale e in tutti i possibili livelli di ricezione che si possano considerare.

Anna Consolati

Ma dunque possiamo parlare di una “danza sociale d’arte”?

Penso si possa parlare di una danza sociale d’arte, anche se per noi “sociale” rimane tra parentesi: sappiamo che vi è, è insito in questa scelta di ricerca, ma non è l’oggetto della nostra indagine anche se sicuramente lì si riflette.

 

(In copertina, la Candoco Dance Company: Face In, coreografia di Yasmeen Godder; Foto di Hugo Glendinning)

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