
Teatro
Equus: esplorare la genesi di un mito
Genova. Cinque minuti non di più: dopo i primi cinque minuti dello spettacolo Equus, il pubblico si trova travolto e immerso in una densissima bolla di senso e di mistero. Lo spettacolo serve poi a comprendere quel mistero, a provarci almeno, serve a decifrare segni e simboli ben nascosti in quella densità o forse, più giustamente, costitutivi di essa. Raccontiamo dello spettacolo costruito, su testo drammaturgico di Peter Shaffer (1926 – 2016), da Carlo Sciaccaluga, in scena al Teatro Duse di Genova dal 29 marzo al 6 aprile e concepito in sostanziale (ma non automatica e forse non del tutto pacificata), continuità con lo spettacolo realizzato da suo padre nel 1975, l’indimenticato Marco Sciaccaluga, sempre per il Teatro Stabile di Genova (oggi Nazionale) e su spinta di Ivo Chiesa. La traduzione dall’inglese è firmata dallo stesso regista che associa il suo nome a quello del padre, anche lui traduttore e regista del testo di Shaffer, e anche questo è probabilmente un segno che va focalizzato e compreso. In scena ci sono Luca Lazzareschi (che interpreta lo psicanalista Martin Dysart), Pietro Giannini (che interpreta con interessante sensibilità il giovane protagonista del dramma Alan Strang), Paolo Cresta (Frank Strang, suo padre), Pia Lanciotti (Dora Strang, sua madre), Camilla Semino Favro (Ester Salomon, magistrato minorile), Giulia Prevedello (Jill Mason / un’infermiera), Michele De Paola (Harry Dalton / un giovane cavaliere). Hanno lavorato di cesello e l’hanno fatto insieme, regista e interpreti, perché non c’è una sola virgola nella densa economia concettuale di questo lavoro che può considerarsi autonoma rispetto al suo senso complessivo. Ovviamente, la stessa valutazione deve riferirsi agli aspetti visivi dell’allestimento (forse un po’ troppo complessivamente sbilanciati verso un immaginario anni settanta), a quelli musicali, ai movimenti coreografici, al disegno luci curati rispettivamente da Anna Varaldo, da Andrea e Leonardo Nicolini, da Claudia Monti e da Aldo Mantovani. La storia è presto detta: un diciassettenne (Alan Strang) acceca, in una sola notte, sei cavalli che aveva in custodia come stalliere. Non c’è alcun motivo apparente che possa spiegare, se non giustificare, tale gesto assurdo e di inquietante crudeltà. Il compito d’interpretare l’accaduto, di spiegare l’ossessione bruciante di quel ragazzo per i cavalli e, se possibile, immaginare un percorso terapeutico viene affidato ad uno psichiatra autorevole e molto stimato (Martin Dysart) che, nel confrontarsi col giovane, con quella sua passione travolgente, irrazionale, morbosa eppure misteriosamente mistica, non può che finire lui stesso attratto e coinvolto nell’alone di entusiasmo mistico di quel paziente e, a partire da tutto ciò, riconoscere profondamente la miseria sterile, noiosa, ordinaria della sua esistenza. Ovviamente questo incontro, che è l’asse portante del dramma, è impregnato di una complessità culturale e filosofica necessaria e molto maggiore di quanto è lecito e possibile raccontare qui e coinvolge gli altri personaggi (la giudice minorile, i genitori, la ragazza che si invaghisce di lui, un’infermiera) in quanto portatori di altri punti di vista e di altre istanze emotive e politico-culturali (giuridiche, affettive, religiose, politiche, sociologiche) atte a definire e spiegare, più o meno adeguatamente quanto era accaduto a quel ragazzo. La tentazione che pervade il pubblico è dunque seguire analiticamente le varie linee d’interpretazione di quel mistero, farsene attraversare e percepire, insieme con Dysart, l’insufficienza di ogni singolo approccio psichiatrico o psicanalitico (Freud, Jung, Hilmann), antropologico, religioso, filosofico, politico a quel mistero. Forse, per venirne a capo, occorre piuttosto definirlo sinteticamente secondo quanto la storia ci ha insegnato, prima e oltre la scienza e le scienze: quel che vive Alan Strang è l’accadere, sorprendente, inspiegabile e assolutamente ineffabile, di un mito. Ancor più sorprendente e inspiegabile se verificato e pensato nella contemporaneità. Un mito in tutta la sua potenza sintetica e la sua radicalità pre-morale, a-morale, pre-politica, a-storica. Un mito che rifiuta ogni interpretazione che pretenda d’esser razionale ed esaustiva, scientifica o sociologica, un mito che impone – autoritariamente se si vuole – abbandono e passione e promette (e concede) abbandono e passione (furor, enthusiasmòs, attrazione magnetica, eros, vitalità autentica e non mediata culturalmente da alcuna scelta ideale o ideologica).
Si rinnova per altro in Dysart, nella sua riflessione che è al contempo professionale ed esistenziale, una serie di dicotomie laceranti e dolorose che concernono appunto la relazione tra mito e comprensione razionale della realtà, tra narrazione e dimostrazione, tra libertà e condizionamenti sociali, tra forza del desiderio e quella della normatività, tra la dimensione del religioso e quella dell’ideologico (entrambe ugualmente opprimenti), la relazione tra generazioni diverse e portatrici di visioni del mondo, se non opposte, non facilmente conciliabili. E qual è il luogo si innesta la possibilità di una contemporanea e vitale mitogenesi? O, sul versante opposto, qual è il luogo dove deflagrano o maggiormente si scaricano le laceranti dicotomie di cui sopra? Senza dubbio il corpo e la sua eccentricità libera, desiderante e narrativa, che si ammala (fino alla violenza appunto) se non viene compresa anche sinteticamente e accettata per quel che è e quel che esprime. Uno spettacolo nutriente insomma che, a partire da un testo di straordinaria densità, affronta con intelligenza e reale potenza catartica un aspetto della realtà, ovvero la nascita, la persistenza e la funzione del mito come espressione inestinguibile e irrinunciabile (se non a carissimo prezzo) dell’umano. Sembra Euripide, ma è Carlo Sciaccaluga che rilegge, oggi, Shaffer.
Equus.
Da martedì 25 marzo a domenica 6 aprile, Teatro Eleonora Duse. Di Peter Shaffer; traduzione di Marco e Carlo Sciaccaluga. Con: Luca Lazzareschi (Martin Dysart, psicanalista), Pietro Giannini (Alan Strang), Paolo Cresta (Frank Strang, suo padre), Pia Lanciotti (Dora Strang, sua madre), Camilla Semino Favro (Ester Salomon, magistrato), Giulia Prevedello (Jill Mason / un’infermiera); Michele De Paola (Harry Dalton / un giovane cavaliere). Regia Carlo Sciaccaluga. Scene e Costumi di Anna Varaldo; Luci di Aldo Mantovani; musiche di Andrea e Leonardo Nicolini; movimenti coreografici di Claudia Monti. Maschere equine realizzate da Lorenzo Rostagno e Valentina Viviano con la supervisione di Saverio Galano. Crediti fotografici: Federico Pitto. Produzione del Teatro Nazionale di Genova, in accordo con la Concessionaria Antonia Brancati srl.
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