Teatro

Emma Dante e gli attori “scortecati”

14 Dicembre 2017

È forse il primo, grottesco, “lifting” della storia, quello raccontato da Giambattista Basile nella decima novella del suo meraviglioso “pentamerone” che è il Cunto de Li Cunti.

La Scortecata, nel vorticoso e barocco napoletano del Seicento usato dall’autore, racconta dunque la storia di due vecchie che, pur di tornare giovani, sono disposte a farsi scorticare, a tirarsi via la pelle raggrinzita e segnata dal tempo.

È un sogno di giovinezza che si muta in violenza, in parossistica affermazione e negazione di sé, in una improbabile e funerea trasformazione. Un sogno quanto mai attuale e presente, tanto che la vicenda potrebbe diventare – per chi volesse leggere tra le righe – anche una curiosa e ipercontemporanea satira politica.

Che poi Basile aggiunga un tocco di magia per salvare il salvabile e proporre una sorta di lieto fine è un’altra faccenda: che non interessa più di tanto, però, a Emma Dante, la regista che ha messo in scena un suo personalissimo omaggio al Cunto e alle Scorticate.

Maringola e D’Onofrio, foto di Franco Lannino

Si sa, Emma è profondamente e radicalmente palermitana, ma qui – complice anche la presenza del marito, lo straordinario attore napoletano Carmine Maringola – torna sotto il Vesuvio sviscerandone passato e presente. La Scorticata, dunque, che ha debuttato allo scorso Festival di Spoleto, prodotto dal Teatro Biondo di Palermo con la compagnia Sud Costa Occidentale, è l’occasione per affondare nei vicoli di Napoli e per creare altri due personaggi del complesso affresco umano che Emma Dante con la sua compagnia sta cesellando spettacolo dopo spettacolo.

Qui sono Rusinella e Carolina (i nomi non sono dell’originale), interpretate da due uomini, anche prestanti e nerboruti, l’ottimo Salvatore D’Onofrio e appunto il citato Carmine Maringola. Sono loro a far tutto: a creare il mondo appoggiandosi al nulla, usando due sedioline, un altarino su cui si staglia il modellino di un castello e una cassapanca. Non serve altro, se non due improbabili sottovesti slabbrate.

Salvatore D’Onofrio, foto di Franco Lannino

Li troviamo infagottati in una tuta sportiva, presi in un movimento sospeso tra naturale e innaturale: seduti sulle due seggioline, ciascuno succhia voracemente e velocemente il proprio mignolo della mano destra. Una frenesia, tra conati di vomito e inesorabile necessità. Ed è buffo notare quanto e come, probabilmente per la prima volta nella storia del teatro, un mignolo diventi protagonista assoluto della scena.

Carmine Maringola, foto di Franco Lannino

Perché lo fanno? Le due iniziano a parlare, e si svelano donne, vecchie, brutte. Ma devono lisciare quel dito per mostrarlo al re, tramando l’inganno che può “salvarle”: il ditino deve essere liscio e candido come quello di una fanciulla.

Inizia così la “recita” delle donne. Apparecchiano la loro cerimonia che sarebbe piaciuta al Genet de Le serve, e nel basso napoletano sognano l’amore, la fuga, la giovinezza. Si rincorrono, si scambiano i ruoli, fantasticano, danzano.

foto di MLAntonelli-AGF

La partitura sonora – ossia il tessuto verbale di Basile – si fa presto estremamente fisica, e il corpo entra da protagonista nelle posture, nelle maschere facciali, nella gestualità. Le “caratterizzazioni” di Maringola e D’Onofrio potrebbero evocare l’immaginario della Commedia dell’Arte, il “codice energico” dei Comici cinquecenteschi – senza ovviamente pedisseque interpretazioni. Perché con quel codice danno al racconto umanità e ferinità, selvatica e tenerissima passione.

Intervallato da un florilegio di canzonette napoletane (Reginella su tutti, ma anche Mambo Italiano e altre) il racconto diventa metafora, riflessione sul passare del tempo, sulla inaccettabilità del vivere.

Tutto entra in gioco: la miseria, la solitudine, la frustrazione, il dolore, il rimpianto, la rabbia. Perché quelle due sono oramai scorticate dalla vita. Eppure lo spettacolo è un divertimento comico, a tratti irresistibile, è una commedia amara, che si libra leggera, disinvolta, sboccata, nell’austero ring di luci disegnato da Christian Zucaro.

Solo nel finale, quando la recita sarà compiuta, quando l’ennesima rappresentazione del sogno sfuma nella misera del reale, arriva il lampo di immanente tragedia. Quel dolore, quella violenza irsuta che avevano aleggiato per tutto il tempo si impossessano finalmente della scena. In una sospensione caravaggesca del gesto, un coltellaccio vibra in aria, pronto a fendere, a colpire, a scorticare. Ma non sapremo mai se si concluderà la coazione a ripetere delle due donne, se si libereranno dai loro sogni diventati incubi, se la morte metterà fine allo struggimento di quelle figure costrette a recitare. Oppure se, come sempre accade, il giorno dopo si ricomincia.

foto MLAntonelli-AGF

Eccola l’esplosione fragorosa della poetica di Emma Dante, che pure frequenta spesso i territori della fiaba: quel suo cercare, sempre, le ragioni della strenua resistenza di chi sta al mondo. Nel mistero della vita e della morte, si riverberano il rito e la farsa, il profano e il sacro, la gioia e il dolore. Questo lavoro potrebbe sembrare “minore”, rispetto alla complessa contraddittorietà di Bestie di scena (ne scrivevo qui) e invece mi sembra quasi un precipitato, uno spin-off, un consanguineo che enfatizza tratti somatici e genetica: l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Peraltro anche là, in Bestie di scena, gli attori erano effettivamente, totalmente, scorticati, ridotti a puro essere, al “miseramente ontico”, e ostinatamente costretti alla recita.

Ho visto La Scorticata nel bel teatro “Francesco Stabile” di Potenza, nell’ambito del bel Città delle 100scale Festival: il teatro pieno e il pubblico, partecipe e commosso, che ha tributato numerose chiamate.

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