Teatro

Elogio di un Abisso: sublime e feroce, il monologo di Davide Enia

14 Febbraio 2019

 

Il naufragio è la storia, il destino; l’abisso, nell’omonimo lavoro di Davide Enia è il sentimento senza fondo, striato di ricordi, che muove la narrazione tratta dal suo ultimo libro di appunti siciliani.

L’Abisso è un intenso monologo teatrale nel tempo di un racconto che intreccia vivi e morti, Lampedusa e Palermo, famiglia e fuga; replica dopo replica, nel “rivissuto sentimentale” che ha generato la storia.

Cosa può fare un intellettuale davanti agli orrori del proprio tempo? Può osservarli, restando fermo in una stanza, staccato dal reale; può astrarre, ma può anche agire, fisicamente, così come tentò Sandro Veronesi nel suo “Cani d’estate”, pamphlet su corpi indignati e corpi ignorati. Un intellettuale può anche raccontare da un palco quello che ha visto e provato, spettatore lui stesso di orrori e miserie che ora spettano al suo pubblico. In questo doppio movimento speculare si riesce, a teatro, a sentire forte il battito, oltre che vederne gli effetti, del cuore altrui. Al cinema maggiore è l’effetto-visione, sulla scena, quando l’attore è mosso da un sentimento vivido, si arriva nei pressi di un’estasi collettiva. Così, se il premiato documentario di Gianfranco Rosi ha mostrato con Fuocoammare le storie degli sbarchi a Lampedusa e dei loro protagonisti, il lavoro di Davide Enia non mostra nulla, ma trasmette, inietta nelle vene dei presenti, un sentimento probabilmente inestricabile e soggettivo ma forte e persistente: lo si comprende dallo scroscio incessante degli applausi alla fine dei minuti. La piccola sala Thierry Salmon dell’Arena del Sole di Bologna è scossa per oltre un’ora da ondate di parole, silenzi, canti e musica. In chiusura, il pubblico esplode in un lungo drammatico applauso, liberazione di un dolore muto, incosciente, chiuso nell’impotenza di argomentarlo. Perché sulle migliaia di morti in fuga verso il Mediterraneo, sulla loro sorte di vivi e di morti indistintamente, si va formando per tanti una posizione media e mediatica di superficie; un’immagine fredda, sommaria, di comune dolore di facciata; indigesta e quindi in fondo trascurabile nel marasma delle quotidiane angosce di ognuno.

 

Cosa può fare uno spettatore davanti al racconto di una tragedia fatta di giovani morti, di eroi nascosti e impazziti, quando questi morti, nella voce di un umo solo, cominciano a gridare tutti assieme? Uno spettatore, come il sottoscritto, può iniziare a credere a quell’uomo solo sul palco. Può mettere parte del proprio dolore sulle sorti altrui. Può anche, tutto sommato, ringraziare chi per lui si spinge a guardare nell’abisso e poi a raccontarlo.

Si apre uno spazio vocale da un palco scarno e buio, riempito dalla massa corporea di Enia e da quella eterea del fine chitarrista che lo accompagna, Giulio Barocchieri; il primo passionale, gli occhi fiammeggianti e attenti, l’altro pallido, scarno, seduto con in braccio due chitarre, la testa china. Il duo palermitano è bene assestato, alla cinquantesima replica di uno spettacolo costituito di un corpo narrante capace di tumulto e silenzi di un’intensità infrangibile, nel racconto di un soggiorno a Lampedusa durante sbarchi di migranti, trasmesso sul filo di accordi di chitarra e canti popolari. Lo sfondo è l’isola vicina all’Africa, l’abisso il Mediterraneo che abbiamo intorno da sempre; il tempo è l’attualità, coi suoi drammi, le sue bianche assuefazioni. In tutto ciò, Davide Enia riesce ad evitare moralismo e spettacolarità, dal momento che racconta i fatti come stanno (spesso riportando testimonianze altrui), senza giudicare, con digressioni e dettagli che inverano la storia per come l’ha realmente vissuta e sofferta, seguendo un memoriale asciutto di immagini in movimento, scevro di retorica e celebrazioni di qualunque genere.

Un racconto nella formula del teatro di parola, al seguito di due chitarre, quella classica a punteggiare il dramma, l’elettrica nel fulgore della tragedia; una gestualità familiare, fatta di braccia, dita puntate in alto e in basso, di crolli su un sedia scheletrita, rispondente a un sentimento vissuto e ricreato in scena dall’autore, che profonde e canta: un canto al naturale, dal verbo alla litania, come il canto invocato dalle parole cangianti nella poesia “Vana” di Ezra Pound.

Ecco i principali elementi di un lavoro dall’ossatura semplice e dalla complessa sostanza, nel calderone fuligginoso dell’attualità sui migranti, applaudito per un tempo tanto lungo da obbligare i due sul palco a cinque uscite per onorare il pubblico che continua ad acclamare. Nel lungo, quasi imbarazzante battimani, il grido – finalmente possibile ad ognuno – davanti all’orrore ridestato. Di volta in volta, di spettacolo in spettacolo, questo orrore assume i connotati impressi dall’autore in scena, se il lavoro è efficace e arriva al petto, come questo monologo di Davide Enia.

La velocità e la frequenza delle notizie rendono tutto labile, convertibile in immagine-evento-tag; il giorno dopo resta un giorno come gli altri, da consumare in fretta assieme ai nuovi drammi notificati in snapshot sullo schermo; eppure, tanto di questo Abisso continuerà a scavare nelle coscienze, o nel miglior auspicio, a suggerire azioni collettive per un naufragio ridotto.

www.davideenia.org

 

 

 

 

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