Teatro
Elisabetta Pozzi in Max Gericke: la donna e il lavoro
Il giorno dopo l’assegnazione dei Premi Ubu (grandi complimenti ai vincitori ma una domanda a “noi” giurati: da Firenze in giù il teatro non esiste?) voglio rendere omaggio a una straordinaria attrice, cui certo non sono mancati riconoscimenti per la bellissima carriera: Elisabetta Pozzi.
L’ho recentemente rivista in scena al Teatro Due di Parma, per una nuova ripresa del Max Gericke.
Per chi si occupa di teatro questo titolo risulterà familiare: è infatti dal 1990 che Elisabetta Pozzi (Betta, semplicemente, per gli amici) fa questo difficilissimo monologo. E dentro un simile, ambiguo, personaggio lei stessa è cresciuta, è cambiata.
Sono interessanti questi spettacoli di lunghissima e straordinaria tenitura: lavori che vanno in scena da venti, venticinque anni. Penso a Rumori fuori scena, della compagnia Attori e Tecnici, oppure – sempre a Parma – alla struggente Istruttoria di Peter Weiss. E Max Gericke si inserisce a pieno titolo in questa particolare categoria di spettacoli eternamente nuovi.
La storia, scritta da Manfred Karge a partire da un fatto vero, è semplice e complessa: negli anni bui e difficili della Repubblica di Weimar, una donna si sostituisce al marito morto per non perdere il posto di lavoro. Veste i suoi panni, si fa uomo, pur di mantenere l’incarico al cantiere. Come “Max” questa donna passa quaranta anni: la troviamo nella sua piccola stanza, di fronte a un televisore, che trasmette un vecchio tango di Kurt Weill. Eccola là, a ripercorrere tutta la sua esistenza.
Dunque potete immaginare che miracolo di “sospensione di incredulità”: una bella attrice che, con un trucco formidabile, interpreta una donna che si fa uomo e vecchio, pur rimanendo donna.
Grazie all’incredibile talento, e alla regia illuminata e delicata di Walter Le Moli, lo spettacolo continua a essere pregnante, di vibrante intensità e tensione.
Ed è bello rivederlo oggi. L’occasione era prestigiosa: un articolato convegno internazionale organizzato dal TeatroDue, legata all’assemblea Internazionale di ETC – European Theatre Convention, sul tema Destination Europe? European Drama, a Chance for Intecultural Dialogue. Giornate di lavoro piene di spunti e riflessioni attualissime.
Max Gericke, dunque, l’avevo già visto, forse una decina d’anni fa, ma ho trovato questa ripresa significativa.
Lei, la signora attrice, ha ormai raggiunto uno stato di grazia: basta cogliere quel suo modo di sbattere gli occhi, di inclinare un poco il volto, di muovere le mani, per ripensarla come straordinaria interprete di lavori indimenticati. La Pozzi è stata Amleto (anche quella volta en travesti); oppure eroina tragica a Siracusa, o ancora “nevrotica” protagonista con Luca Ronconi; o ancora splendida solista nelle liriche di Ritsos. E tante, davvero tante altre figure di donna in scena.
Il Max Gericke ha suggestioni diverse. Rilancia temi su temi. Da un lato, ad esempio, c’è la questione identitaria, di “genere”: questa donna è costretta a farsi uomo – realmente e simbolicamente – per poter lavorare e sopravvivere. Non è questione da relegare al passato, alla Germania pre-nazista e nazista: oggi come non mai la condizione lavorativa della donna è incerta e piena di ostacoli e troppo spesso il femminile è costretto a rinunciare a se stesso pur di ottenere “rispetto” e “considerazione” in azienda (o quanto meno un pari stipendio). La donna-manager, cliché imposto dallo sguardo maschile, è una via d’uscita professionale ancorché esistenziale.
Poi, appunto, nel testo di Karge c’è il tema del lavoro. Che esplode, adesso più che in passato: qui il/la protagonista rinuncia a se stessa pur di lavorare, pur di tenere quel sordido posto da gruista in cantiere. Mi sembra che il grido d’allarme di Max Gericke sia pertanto quanto mai attuale: il lavoro è la chimera che distorce le nostre esistenze, che costringe a salti mortali, a compromessi, a umiliazioni. È la disperazione di chi a niente da perdere, eppure cerca di mantenere un minimo di dignità: lei-lui farà di tutto, anche recuperare i vecchi abiti femminili, anche tentare improbabili seduzioni dei vari caporali o possidenti di turno. Tutto per il lavoro, snaturare se stessa fino a diventare una maschera tragica, improbabile, grottesca, quasi espressionista, con un trucco posticcio a cancellare volgarmente identità definitivamente perse.
Elisabetta Pozzi, si diceva, è bravissima: può fare un assolo semplicemente muovendo la mano, aprendo una birra, cambiandosi le scarpe mostrando fatica e intenzione. Fa di questo personaggio un coacervo, un precipitato di umanità, di rancore, di astio, di nostalgie: poi, come sopraffatto dalla propria esistenza, semplicemente resta, a mostrarsi, per quel che non è stato.
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