Teatro

Elisabetta Pozzi in Max Gericke: la donna e il lavoro

1 Dicembre 2015

Il giorno dopo l’assegnazione dei Premi Ubu (grandi complimenti ai vincitori ma una domanda a “noi” giurati: da Firenze in giù il teatro non esiste?) voglio rendere omaggio a una straordinaria attrice, cui certo non sono mancati riconoscimenti per la bellissima carriera: Elisabetta Pozzi.

L’ho recentemente rivista in scena al Teatro Due di Parma, per una nuova ripresa del Max Gericke.

Per chi si occupa di teatro questo titolo risulterà familiare: è infatti dal 1990 che Elisabetta Pozzi (Betta, semplicemente, per gli amici) fa questo difficilissimo monologo. E dentro un simile, ambiguo, personaggio lei stessa è cresciuta, è cambiata.

Sono interessanti questi spettacoli di lunghissima e straordinaria tenitura: lavori che vanno in scena da venti, venticinque anni. Penso a Rumori fuori scena, della compagnia Attori e Tecnici, oppure – sempre a Parma – alla struggente Istruttoria di Peter Weiss. E Max Gericke si inserisce a pieno titolo in questa particolare categoria di spettacoli eternamente nuovi.

Elisabetta Pozzi in Max Gericke
Elisabetta Pozzi in Max Gericke

La storia, scritta da Manfred Karge a partire da un fatto vero, è semplice e complessa: negli anni bui e difficili della Repubblica di Weimar, una donna si sostituisce al marito morto per non perdere il posto di lavoro. Veste i suoi panni, si fa uomo, pur di mantenere l’incarico al cantiere. Come “Max” questa donna passa quaranta anni: la troviamo nella sua piccola stanza, di fronte a un televisore, che trasmette un vecchio tango di Kurt Weill. Eccola là, a ripercorrere tutta la sua esistenza.

Dunque potete immaginare che miracolo di “sospensione di incredulità”: una bella attrice che, con un trucco formidabile, interpreta una donna che si fa uomo e vecchio, pur rimanendo donna.

Grazie all’incredibile talento, e alla regia illuminata e delicata di Walter Le Moli, lo spettacolo continua a essere pregnante, di vibrante intensità e tensione.

Ed è bello rivederlo oggi. L’occasione era prestigiosa: un articolato convegno internazionale organizzato dal TeatroDue, legata all’assemblea Internazionale di ETC – European Theatre Convention, sul tema Destination Europe? European Drama, a Chance for Intecultural Dialogue. Giornate di lavoro piene di spunti e riflessioni attualissime.

Max Gericke, regia Walter Le Moli
Max Gericke, regia Walter Le Moli

 

Max Gericke, dunque, l’avevo già visto, forse una decina d’anni fa, ma ho trovato questa ripresa significativa.

Lei, la signora attrice, ha ormai raggiunto uno stato di grazia: basta cogliere quel suo modo di sbattere gli occhi, di inclinare un poco il volto, di muovere le mani, per ripensarla come straordinaria interprete di lavori indimenticati. La Pozzi è stata Amleto (anche quella volta en travesti); oppure eroina tragica a Siracusa, o ancora “nevrotica” protagonista con Luca Ronconi; o ancora splendida solista nelle liriche di Ritsos. E tante, davvero tante altre figure di donna in scena.

Il Max Gericke ha suggestioni diverse. Rilancia temi su temi. Da un lato, ad esempio, c’è la questione identitaria, di “genere”: questa donna è costretta a farsi uomo – realmente e simbolicamente – per poter lavorare e sopravvivere. Non è questione da relegare al passato, alla Germania pre-nazista e nazista: oggi come non mai la condizione lavorativa della donna è incerta e piena di ostacoli e troppo spesso il femminile è costretto a rinunciare a se stesso pur di ottenere “rispetto” e “considerazione” in azienda (o quanto meno un pari stipendio). La donna-manager, cliché imposto dallo sguardo maschile, è una via d’uscita professionale ancorché esistenziale.

Poi, appunto, nel testo di Karge c’è il tema del lavoro. Che esplode, adesso più che in passato: qui il/la protagonista rinuncia a se stessa pur di lavorare, pur di tenere quel sordido posto da gruista in cantiere. Mi sembra che il grido d’allarme di Max Gericke sia pertanto quanto mai attuale: il lavoro è la chimera che distorce le nostre esistenze, che costringe a salti mortali, a compromessi, a umiliazioni. È la disperazione di chi a niente da perdere, eppure cerca di mantenere un minimo di dignità: lei-lui farà di tutto, anche recuperare i vecchi abiti femminili, anche tentare improbabili seduzioni dei vari caporali o possidenti di turno. Tutto per il lavoro, snaturare se stessa fino a diventare una maschera tragica, improbabile, grottesca, quasi espressionista, con un trucco posticcio a cancellare volgarmente identità definitivamente perse.

Elisabetta Pozzi
Elisabetta Pozzi

Elisabetta Pozzi, si diceva, è bravissima: può fare un assolo semplicemente muovendo la mano, aprendo una birra, cambiandosi le scarpe mostrando fatica e intenzione. Fa di questo personaggio un coacervo, un precipitato di umanità, di rancore, di astio, di nostalgie: poi, come sopraffatto dalla propria esistenza, semplicemente resta, a mostrarsi, per quel che non è stato.

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