Teatro

Elena riabilitata da Livermore (ed Euripide)

5 Ottobre 2020

E se Elena, a Troia, non ci fosse mai stata? Se buona parte di quello che si studia di mitologia greca, dalle elementari fino al ginnasio e oltre, fosse da buttare? Tutte menzogne: fake news che da millenni attribuiscono colpe non sue alla più bella dell’antichità. È merito di Euripide se a un certo punto, nel 412 a.C., qualcuno ha cercato di riabilitare davanti agli ateniesi la fedifraga per eccellenza, l’adultera più famosa della letteratura almeno fino alle Bovary e Karenine ottocentesche. Ne uscì la sua tragedia più strana, la più sperimentale e sofisticata, o meglio sofistica (gli anni erano quelli), a metà tra la commedia degli equivoci e uno scritto di Protagora: una tragedia che tragedia non è, definita da qualcuno una “quasi-commedia”, testo ibrido di una modernità sconvolgente.

In breve, Elena durante la guerra sarebbe rimasta tutto il tempo sulle rive del Nilo, in attesa del ritorno del marito, che nel frattempo era occupato a massacrar troiani convinto di combattere per riprendersi la sua sposa; quando in verità Paride, senza accorgersene, si teneva in camera da letto un’ombra, un simulacro, un fantasma, un “eidolon”, parola intraducibile in cui si inizia a tracciare la differenza ontologica tra i nomi e i corpi, tra le parole e le cose. Da qui attualissime invettive sull’inutilità della guerra, sulle ambiguità della storia, delle previsioni, degli oracoli: la più grande tragedia dell’antichità, la guerra di Troia, diventa all’improvviso la capricciosa beffa di un dio. Ma c’è di più, perché quando poi moglie e marito si riconoscono, scappano dall’Egitto architettando una nuova beffa, stavolta umana troppo umana, che sembra uscita da una commedia di Shakespeare o da un’opera buffa del Settecento.

Merito di Davide Livermore aver riportato Elena in circolazione: il suo è come sempre uno spettacolo in grande, nato al Teatro Greco di Siracusa, poi portato al Teatro Romano di Verona per approdare infine al Nazionale di Genova (fino al 12 ottobre), di cui Livermore è diventato direttore. In scena la magnifica presenza di Laura Marinoni, al suo meglio, baricentro della messinscena in oscillazione continua tra l’enfasi e il distacco, capace di costruire un registro che va oltre l’alternativa tra commedia e tragedia: del resto la virtù a teatro non sta quasi mai nel mezzo. Qui l’equilibrio c’è, ma non nel senso di un compromesso o appianamento dell’espressione: la Marinoni conduce la sua interpretazione con una tensione da dramma borghese, un po’ alla Ibsen, sempre asciutta e precisa, in bilico tra i semitoni di un personaggio tutto da riscoprire.

La messinscena di Livermore è interamente giocata sull’ambiguità, sulle apparenze, sui riflessi che corrono tra i personaggi in scena, dove ognuno è come il doppio di se stesso: come se l’“eidolon” diventasse un vero e proprio principio drammaturgico. Ma non è tutto: Livermore decide di allagare l’intero palcoscenico, trasformandolo in una specie di enorme specchio il cui riverbero aumenta a ogni passo degli attori, tra schizzi e increspature. Qui il debito è con Ronconi e il suo Orfeo di Monteverdi al Goldoni di Firenze del 1998: non tanto per l’acqua, quanto per l’atmosfera un po’ infernale che questo spazio allagato suggerisce. Per Ronconi era il letto di Euridice alla deriva sull’Acheronte, qui è una poltrona in pelle che scarrozza la diva Elena tra relitti e obelischi abbattuti, sempre nel suo abito di paillette da regina del varietà, prima di svelare tutta la sua senile fragilità nel finale.

I costumi di Gianluca Falaschi arricchiscono la lettura anfibia della regia giocando con l’identità di genere, con la rivista, persino con un settecento decadente tipo ritorno di Casanova. Ottimo anche il resto del cast, soprattutto il Menelao stentoreo di Sax Nicosia, il nevrotico Teoclimeno di Giancarlo Judica Cordiglia e la messaggera Maria Chiara Centorami, che invita il pubblico a diffidare degli oracoli e strappa un applauso a scena aperta – complice la traduzione di Walter Lapini, fresca e furba in senso buono. Un discorso a parte merita la colonna sonora di Andrea Chenna, che riesce a cucire tra loro brani agli antipodi, come il Lacrimosa dal Requiem di Mozart e La valse di Ravel, che emergono come isole tra effetti sonori liquidi e astratti.

Foto di Federico Pitto.

 

 

 

 

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