Teatro

Edipo col naso da clown

21 Marzo 2016

È tutto un fiorire, sui social, di vademecum per il critico: decaloghi, direttive, consigli, addirittura modestissime rappresaglie, per dire al critico di turno, o sedicente tale come chi vi scrive, cosa deve vedere, fare, capire, studiare, leggere, amare. In sostanza indicazioni per la “recensione perfetta” elaborate dagli artisti. La faccenda è non priva di interesse, al di là della reazione emotiva: sembra, infatti, che l’opera fu-aperta sia destinata a chiudersi, e che l’orizzonte delle interpretazioni possibili debba solidificarsi attorno a quella dell’artista, depositario del senso, che pretende l’osservanza di certe regole date al critico.

E nel momento in cui si parla (in Europa, negli Stati Uniti) di spettatore “emancipato”, lasciando proprio al singolo spettatore l’ultimo e definitivo “montaggio”, questa riduzione della possibile dialettica, verso una univocità di percezione determinata dall’artista è davvero curiosa. Apriamo, allegramente e con veemente fermezza, le porte al pensiero unico?

Chi la pensa diversamente è un “gufo”, come direbbe il nostro amato Presidente del Consiglio, una “cassandra” cui non dare ascolto. Oppure qualcuno assoldato – come naturalmente chi vi scrive – da non definiti poteri occulti, traffichino invidioso che opera complotti ai danni dei poveri artisti, ovviamente per livore o tornaconto personale (questione che si risolverebbe agilmente mostrando l’ultimo estratto conto della banca…). La riprova comunque starebbe nell’indiscusso successo di pubblico: il dato “quantitativo” tanto in voga oggi. Tanti spettatori, tanti applausi, sono sinonimo di qualità? Bene, dovremmo prenderne atto se è questo il teatro che ci aspetta in un futuro nemmeno troppo lontano. Come avviene a Torino dove c’è la ressa per ascoltare Piero Angela.

È innegabile, va detto, che lo spettatore sia fondamentale: il teatro si fa per il pubblico e ha senso solo se c’è pubblico. Su questo non si discute. Ma è anche vero – qualcuno lo ricorderà – che tutte o quasi le maggiori rivoluzioni teatrali del Novecento, e non solo, siano nate di fronte a platee misere e minime fatte di pochi spettatori, magari capitati lì per caso; oppure sono frutto di sonori insuccessi di pubblico (ricordiamo I Sei personaggi? Il Barbiere di Siviglia? Le sacre di Nijinski?); al contrario, ci sono testi o opere che ebbero incredibile successo in termini di applausi, di cui si è persa la memoria.

La questione mi pare, al momento, irrisolvibile, ma è bene che se ne parli: al contrario della critica letteraria, in quella teatrale il dibattito spesso langue. Dunque ben vengano anche estemporanei decaloghi e regolamenti, se servono a fare una sempre necessaria critica alla critica, laddove ci sia dialettica e non diktat, cui noi critici, ovviamente, non ci sottraiamo. La critica è innanzi tutto autocritica: appunto dialettica, discussione, scambio. Altrimenti torniamo a Zdanov e non pensiamoci più.

Insomma, ero talmente scosso da tutti questi ragionamenti, che l’altra sera, al Teatro Piccolo Eliseo, ero quasi sicuro che Eugenio Allegri guardasse proprio me, mentre faceva, magistralmente, Edipus di Giovanni Testori. Guardava per controllarmi? Agitato mi sono rivolto al mio vicino di poltrona, poi a quello dopo: mi sembravano tranquilli, divertiti. Allegri guardava me?

Lo faceva con quel suo sguardo affannato e spaurito, con quel suo sorriso antico e bambino che mi ha fatto montare un groppo in gola.

foto di Manuela Giusto
foto di Manuela Giusto

Edipus è un testo ancora magnifico, scritto nella ribollente lingua, misto di dialetto lombardo, latino, volgare pavano, inventata da Giovanni Testori per i suoi Scarrozzanti, fantomatica e sbrindellata compagnia di giro di un tempo che fu.

Racconta di un attore rimasto solo, abbandonato dalla compagna e dai suoi sodali, costretto a dire – ancora e sempre – la sua tragedia: che, in questo caso, rimanda ovviamente all’Edipo sofocleo ma con mille libertà. Un attore messo malaccio, un guitto di provincia che, assistito da un non ben identificato ragazzo che cura le musiche, deve rimediare a tutto, pur di allestire lo spettacolo.

Chissà, forse è solo un folle, un emarginato che sogna un riscatto e non può far altro che andare in scena.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

Qualcuno ricorderà le bellissime, algide e commoventi, edizioni teatrali che Federico Tiezzi e Sandro Lombardi dedicarono alle opere di Testori: c’era uno struggimento sublime. Altri ancora, magari un po’ più attempati, torneranno con la memoria a Franco Parenti, oramai quaranta anni fa, o allo scandalo che questa Trilogia degli Scarrozzanti ancora oggi può provocare.

Qui, Eugenio Allegri, con la garbata e nitida regia di Leo Muscato, gioca su toni più umani, comici addirittura, e dipana la vicenda in un racconto agrodolce, a tratti volutamente affannato, spesso dolente. Mi sembra, infatti, che la verve contestatrice, che è del testo, passi in secondo piano: la rivolta dell’Edipus contro il dispotico padre-re Laio, che non esploderà perché i tebani non seguiranno l’appello del giovane nuovo re, resta marginale.

Foto di Manuela Giusto
Foto di Manuela Giusto

È un finale tragico, certo, ma sembra posticcio, appiccicato là, quasi a mostrare che la tragedia vera sia altrove: ovvero nel cuore e nell’animo dell’attore-personaggio, di quel guitto stanco, ancora alla ricerca di sogni e passioni. Similmente, la deriva aspramente sessuale, con quella sodomizzazione del padre-padrone, che era frutto emblematico dei contorti risvolti dell’altissima poesia di Giovanni Testori, diventa una “cavalcata” grottesca, volutamente buffonesca da sbrigare per mandare avanti la tragedia. La nostalgia del protagonista per la compagna Giocasta che se n’è andata, è anche il ricordo amaro di un teatro che non è più.

Non lo scandalo, non la rivolta: risuona maggiormente, in questa edizione, la fatica dello “spettacolo a tutti i costi”; la macchinosa ingegneria cui è costretto l’attore rimasto solo.

In questa prospettiva, ciò che mia ha colpito è quella sorta di “fiatone”, di respiro alla fine di ogni battuta; e quella presenza fisica forte, netta: Allegri sapientemente oscilla tra la zoppia di Edipo, le gambe storte del capocomico, la morbidezza della regina, lo star comodi sul trono del re. Ma lo fa con quel respiro forte, con quel fiato che a me evocava un affanno, una ansia mal celata.

Col naso rosso da clown, vestito di bianco con papillon d’ordinanza, seduto su una sedia con scritto “Fragile” nello schienale, l’attore muta toni e abiti per dar voce a tutti, ci prova a (ri)creare il mondo com’era. Ma non ce la fa, non ce la può fare. Resta solo lui, lo scarrozzante, il capocomico senza comici, il guitto emblema di un teatro sempre più fragile appunto, sempre più ridotto al lumicino. Oltre la clownerie, allora, oltre lo scherzo e lo sberleffo irriverente, c’è un gioco sottile, trattenuto, quasi di “teatro nel teatro”, di vita vissuta, cui Allegri dà intima adesione: bravo nel gestire i tempi, i versi, i gesti, di questo Edipus, che – mi pare – si muti dunque di carattere assumendo toni di una farsa macabra, di un compianto umanissimo, di una messa a nudo di sé attraverso il teatro, con grande tenerezza.

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