Teatro
Echoes, lo scontro al tavolo del potere
Questa è una recensione particolarmente difficile da scrivere. Tutte lo sono, ma questa ha qualcosa che la rende particolarmente complicata. Vi parlo, infatti, di uno spettacolo bello, a tratti davvero bellissimo. Forte, teso come una freccia scoccata da un arciere sapiente. Parlo di Echoes, visto al debutto italiano in un gremito Teatro Argot, a Roma. Debutto italiano perché lo spettacolo, con lo stesso cast ma in versione inglese, ha avuto grande successo alla sezione Fringe dell’ultimo festival di Edimburgo questa estate.
Lavoro intenso, dicevo, affrontato magistralmente da due ottimi attori: lo straordinario, micidiale, maestro di cerimonie Marco Quaglia, da Oscar, e l’ottimo e robusto contraltare di Stefano Patti, che firma anche l’asciutta e rigorosa regia.
In scena un tavolo rettangolare, lucido, freddo. Due sedie, alle estremità corte. Niente altro. Se non, da un lato l’uomo elegante, chiamato Echo, e all’opposto del tavolo, De Bois, vestito in modo più alternativo. Una canzoncina d’antan (Stand by your man, di Tammy Wynette) dà il via allo scontro verbale, al testa a testa concettuale, dialettico, politico. È un duello aspro, pesante: i due avversari si scagliano addosso parole come pietre, oppure si sfidano a colpi di fioretto, senza escludere piccate precisazioni, acute puntualizzazioni, ironie sottili. Capiamo di essere piombati in un futuro apocalittico – o distopico, come si usa dire oggi – in cui il potere che l’uomo elegante rappresenta ha perso consapevolmente il controllo, riversando morte e devastazione in un’area vasta di un fantomatico paese. Siamo in un bunker, almeno così ci dicono, e si parla di un milione di morti, una ecatombe avvenuta là fuori, non sappiamo quando.
Il potere è legibus solutus, è esso stesso legge, capriccio, raccapriccio. L’altro ha un registratore, scopriamo la sua identità: è un giornalista, convocato lì per quella che potrebbe essere l’intervista del secolo, quella con il despota, il dittatore, il potente Echo. La discussione è sempre più tesa, si apre a squarci netti di filosofia, di economia, di religione, di politica internazionale. Tutto si intreccia, si confonde, si sovrappone. Le parti si scambiano in quel darsi del “lei” o del “tu” (amo mi si dia del tu, quando mi si contraddice, afferma più o meno il potente). A gestire la dinamica entra in gioco anche la voce calda ma fuori campo di un computer che tutto controlla, dal nome di Nancy Babich (è la voce suadente di Giordana Morandini).
Lo scontro è sempre più appassionante: anche perché si scoprirà che il giovane giornalista è in realtà a capo di una banda ribelle, Gli Apostoli, rendendo chiare le implicazioni religiose cui tale nome allude. Il leader ribelle vuole i codici delle testate nucleari. Tra i due uomini la dialettica si fa sottile e grave, oltremodo attuale: cosa accade alle rivoluzioni quando toccano il potere, quando raggiungono il proprio scopo? La storia lo ha insegnato molto bene. E non è un caso vedere Echoes proprio nel centenario della Rivoluzione sovietica.
Quaglia e Patti tengono la tensione, avvolgono lo spettatore nella disputa teorica, fremono, in ogni istante, di verità taciute o dette. Sono sinceri quei due personaggi? A che gioco stanno giocando?
Allora, qui, nel momento in cui le sottili e infinite trame dovrebbero dipanarsi, il bel testo di Lorenzo De Liberato gioca una carta a sorpresa. Dovrebbe essere lo svelamento, il climax, lo snodo: ma è quel che a me non è piaciuto, che mi ha fatto cadere un po’ le braccia (magari non tutte e due, ma un braccino sì). Perché proprio sul più bello, come un coito interrotto, arriva una “motivazione” – non posso dire altro – che sposta il piano della vicenda.
Ci costringerebbe, se volessimo essere coerenti, a spostare anche il piano della ricezione, a rileggere tutto retroattivamente, slittando da quello appena evocato, misterioso e politico, a uno di tragedia forse più classica, certo più intima che non internazionale. Insomma, io l’ho vissuta come una soluzione drammaturgica troppo semplice rispetto all’articolato impianto apparecchiato sino a quel momento. Viene da dire, a me vien da dire, un po’ peccato: perché Echoes, prodotto con merito dalla vivacissima “369gradi”, è un gran lavoro, bello e nervoso, di assoluta qualità in tutto e per tutto. Ma poteva essere un geniale, nuovo, capolavoro: e a me questa cosa fa una rabbia!
Il pubblico della prima non è stato del mio parere: e ha tributato un caloroso, convinto (e meritato) applauso agli interpreti e a tutto il gruppo. Andate a vedere Echoes, fino al 3 dicembre all’Argot di Roma: sappiatemi dire, sarei felice di cambiare idea.
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