Teatro

È solo questione di genere

24 Giugno 2017

Non drammatizziamo, verrebbe da dire per citare Truffaut. E invece non si fa che drammatizzare, ovviamente a teatro: in queste orgogliose settimane milanesi pre-gay pride e post-stagioni teatrali, con la città in torrido spegnimento estivo, i palcoscenici più importanti si popolano di confusi intrecci di sessualità e di genere, con magnifici artisti che spuntano nei cartelloni di Piccolo, Parenti ed Elfo. Si tratta della compagnia Eco di Fondo, degli Atopos, dei Motus, che vorremmo vedere più spesso avventurarsi nei loro esperimenti di scena su personaggi che, una volta nati, non fanno che rinascere continuamente in cerca della loro forma stabile.

Ma prima di qualsiasi commento serve chiedersi il ruolo di un teatro di diritti, civili perché è solo di civiltà che si parla. Il ruolo di un teatro che mette in gioco le sue stesse regole e contenuti per scendere in piazza e chiedere qualcosa di più, come fa il popolo del pride, che non è solo LGBT ma riesce a includere in sé tante altre splendide lettere: Q di queer, I di intersex, A di asexual e ne aspettiamo altre.

Un popolo che si scontra con le disuguaglianze e precarietà di un’etica frammentata, di un pensiero minimo e insignificante da tastiera che, in pochi caratteri, tenta di annullare ogni tentativo di complessità. Invece su una scena le ambiguità sanno ricomporsi: perché le parole, in questo modo di fare teatro, si inseguono in sala senza pretendere un punto fermo o definitivo e si incarnano in una viva e urgente indagine sull’identità, con la certezza che  l’espressione artistica sia sempre capace di riaccendere la discussione sui diritti.

Così La Sirenetta di Giacomo Ferraù, la Trilogia sul genere di Marcela Serli, MDLSX dei Motus sembrano allearsi contro le semplificazioni e i salti logici di chi confonde l’identità con l’essere e ancora di più l’essere con l’avere.

Nel primo caso ci si ribella alla fissità di categorie universali e immutabili: chi o cosa saresti tu? «Io sono tutti gli insulti che ho ricevuto» risponde dimenandosi Silvia Calderoni dei Motus, rifacendosi al romanzo Middlesex di Jeffrey Eugenides, premio Pulizer sulla vita ermafrodita di Calliope-Cal. Insulti che vengono da fuori ma poi sostano in noi, caricandoci di aspettative e di dover-essere difficili da scrollarsi di dosso, come capita al sirenetto confuso della fiaba di Giacomo Ferraù e Giulia Viana. Una rilettura di Andersen in cui la ricerca dei confini stabili dell’identità si smaterializza in silhouette nere e inconsistenti, poeticamente intrappolate al di là di una membrana di PVC.

Invece nel secondo caso ci si ribella alla riduzione di ciò che siamo al dato del nostro corpo: dato tutt’altro che oggettivo. Non siamo quel che abbiamo, figuriamoci se siamo quel che abbiamo tra le gambe. Eppure, in un mondo diviso in due regioni disgiunte di chiaro e scuro, c’è un pericolo per chi scopre di vivere nelle intersezioni, nelle penombre. È la non facile vita  di un intersex, o di un transgender, né maschio né femmina o non ancora, in balia di speciali garbugli cromosomici o ormonali, i quali si fanno beffe di un ordine sociale costituito da metà simmetriche: l’identità sfugge e contraddice qualsiasi geometria. Ecco spiegato il metateatro estremo di Marcela Serli, che monta i suoi spettacoli con la meticolosità di chi scandaglia se stesso: perché l’unico risultato che vale la pena di vedere è il processo stesso, la dialettica di sé con sé.

Sono spettacoli potenti perché includono ogni spettatore in un discorso che lo riguarda. È il miracolo delle confusioni sessuali e di genere: poter rendere universale il processo di formazione dell’identità, che va costruita e ricostruita pazientemente. MDLSX in particolare risolve il genere come performance, come prova gestuale che filtra l’esperienza del proprio corpo attraverso proiezioni governate dall’attrice stessa. Lo sguardo del pubblico cade sempre e solo su ciò che l’attrice vuole mostrare: a volte un uomo, a volte una donna, ma alla fine il chiarimento di genere non serve più, perché solo nell’interazione tra pubblico e performer l’intero prende forma. Come ricordava Umberto Galimberti a bordo piscina al Parenti: «l’uno nasce dal due».

 

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