Teatro

E se tornassimo a parlare di teatro?

25 Agosto 2015

«Che bello sarebbe poter parlare di teatro con la stessa passione e competenza con cui si parla di Fus» scrive un artista come Claudio Morganti, con la consueta e sorniona ironia, sulla sua pagina Facebook.

E quanto ha ragione!

Di fatto, le dinamiche del Fus, il Fondo Unico per lo Spettacolo stanno determinando la vita della scena: non solo in termini di sussistenza e progettualità (come barcamenarsi con i tagli è questione all’ordine del giorno) ma anche dal punto di vista delle scelte artistiche. Siamo di fronte allo strano paradosso per cui il Ministero guidato da Dario Franceschini, a forza di vincoli, legacci, richieste – e tenendo saldo il cordone della borsa – si sta mutando in una sorta d’involontario “direttore artistico” nazionale.

Negli anni Novanta, con un gruppo di colleghi (ormai ex) giovani critici, ci scannavamo quotidianamente sulle “poetiche”, ovvero sull’analisi delle estetiche della scena italiana. Chi sosteneva l’immagine a scapito del contenuto; chi difendeva la politica sull’estetica; chi abbracciava la parola contro il gesto… Cose così. A ripensarci, ho quasi un moto di tenerezza e nostalgia. Chi ne parla più, anche tra noi?

Oggi discutiamo tanto, anche giustamente, di Fus, di finanziamenti, di progetti, di incassi, di strane equazioni che determinano la “quantità” di lavoro. E, come dice Morganti, ci stiamo dimenticando il teatro – io per primo.  Rischia di sfuggire – almeno a me – il senso profondo del teatro, ovvero l’arte, quel fare arte che è identitario e fondante. Moriremo ragionieri (con tutto il rispetto per la categoria)? Non è un caso che i principali Teatri Nazionali siano diretti da ottimi manager più o meno di lungo corso: gli artisti, semmai, saranno associati. Va benissimo, ovviamente: è finita l’epoca delle voragini in bilancio e delle follie megalomani, degli stipendifici. Però, se l’amministrazione prevale sulla fantasia e sul sogno, un po’ ci dispiace.

Perché se l’obiettivo principale deve essere solo quello del budget, del consenso di pubblico, della tenitura, le cose – va da sé – cambiano.

Cosa fare per tenere uno spettacolo in scena per tre settimane o un mese? Quali strategie adottare? Che si deve inventare un direttore per essere sicuro dell’afflusso di pubblico? E un artista?

Il guaio è che la riforma di settore in atto spinge proprio per una decisa virata “commerciale”. È vero, ed è giusto, che il teatro si preoccupi di avere pubblico – anche perché senza pubblico non vi è teatro. Ed è altrettanto urgente che la scena recuperi una mole di spettatori troppo a lungo snobbata da una “ricerca” eccessivamente autoreferenziale e criptica.

Ma è anche vero che non sono solo i numeri, i dati dell’incasso a dimostrare la “qualità” del nostro teatro. Anzi.

Il teatro che ci interessa, il teatro che amiamo e che sa stupirci, sa interrogare il mondo e l’uomo, non è propriamente “commerciale”. Il problema allora, diventa scottante nel momento in cui, proprio allo scopo di rispondere alle richieste pressanti del Ministero, in tanti, troppi forse hanno scelto di non rischiare, di non sfidare la sorte proponendo magari testi o opere nuove. E virano sul consolidato: non so, sarebbe come imporre ai pittori di fare solo quadri che saranno venduti.

Si gioca sul sicuro, con i “volti noti”, meglio se tv; con “titoli” conosciuti o riconoscibili. Sarà un teatro consolatorio quello che vedremo la prossima stagione? Rideremo tanto? Saremo soddisfatti?

Io, personalmente, non voglio uscire da uno spettacolo “soddisfatto”.  È un termine che detesto se applicato a uno spettacolo: preferisco uscire inquieto, innamorato, pieno di domande, dubbioso. Arricchito, ma non appagato. L’appagamento – di quelli che dicono “ho speso bene il biglietto” – lo lascio al cinema, alle dinamiche immedesimative e hollywoodiane.

Dove sono quei bei convegni di una volta? Dove sono quelle litigate sacrosante? Chi interroga più gli artisti su quanto stiamo vivendo, su quanto accade, su quel che sarà il nostro mondo da qui a dieci anni? Chi accoglie le visioni dei poeti, dei registi, degli attori?

Allora, rilancio l’appello-costatazione (amara) di Claudio Morganti: e se tornassimo a parlare di teatro?

 

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