Teatro

E pensare a un teatro per l’Afghanistan?

19 Agosto 2021

Ricordo che in pochissimo tempo organizzammo, oltre venti anni fa – in un bellissimo e strampalato spazio di Roma, il Teatro degli Artisti, creato con disinvolta follia da quel genio che era Simone Carella – una manifestazione-maratona-spettacolo per sostenere un teatro di Mostar, in Bosnia, assediato dalla guerra civile.
Fu una sorpresa per tutti, promotori compresi, l’ampia adesione degli artisti e delle artiste, e la diffusa partecipazione. Con Antonio Cipriani, all’epoca giornalista dell’Unità, da sempre uno spirito libero e militante, e assieme ad altri, mettemmo in piedi questa – come definirla? – follia teatrale e politica semplicemente per dire: “noi ci siamo, non tolleriamo né quella guerra né l’attacco ai teatri che si perpetrava nel terribile conflitto balcanico. Raccogliemmo anche dei fondi, che era lo scopo della manifestazione: non tantissimi nemmeno pochissimi, che arrivarono a destinazione sollevando, spero per un istante, gli animi degli amici e colleghi bosniaci.
E quante altre iniziative sono state fatte in questi decenni, di solidarietà, di presenza, di denuncia?
Ripensavo a tutto questo assistendo, attonito come tutti, a quel che accade in Afghanistan. È terribile costatare che non posso far nulla per dare un seppur minimo contributo risolvere quella situazione. Ma spiace vedere la stessa frustrazione in tanti teatranti italiani, che trovano nei propri social lo spazio per manifestare la propria indignazione.
Recentemente, in pieno lockdown, tanti “comparti” del teatro italiano sono scesi in piazza, lavoratori e lavoratrici che rivendicavano, e rivendicano ancora, in una sacrosanta battaglia, diritti, tutele, attenzioni, sostegni. Ed è stato bello percepire questo costante sforzo per richiamare attenzione politica su un settore gravemente colpito (e ancora lo è) dalla situazione Covid.
Mi sembra, però – ovviamente riflettendo su me stesso – che la tensione militante di qualche decennio fa sia diventata sempre più lasca, faticosa, resa sempre più complicata, se non impossibile, da un sistema reazionario e sordo alle istanze che arrivano dal basso.
A Genova, con il Teatro Nazionale, stiamo lavorando a un progetto internazionale di nove spettacoli che affrontano temi, desideri, illusioni, motivazioni, disillusioni, violenze, del G8 2001. Sono passati venti anni, e da allora il mondo è radicalmente cambiato. Molti degli autori e delle autrici che prendono parte al progetto si interrogano proprio su cosa spinse allora – da Seattle a Porto Alegre, da Québec City a Göteborg e altrove nel mondo – a scendere in strada rivendicando un mondo migliore. Sappiamo poi come è andata, che fine hanno fatto quei movimenti. Lo vediamo giorno dopo giorno.
Quel che resta da chiedersi, ancora e sempre, è se il teatro, il nostro teatro italiano cui abbiamo dedicato vita e energia, non possa ritrovare quella forza “garibaldina” di mobilitarsi assieme, tutto assieme, per dare vita non solo alle fondamentali e condivisibili proteste e rivendicazioni degli ultimi mesi, ma proprio di usare gli strumenti, i mezzi, le possibilità del teatro allo scopo di dire, denunciare, sensibilizzare, prendere posizione pubblica e politica. In molti, meritevolmente, già lo fanno, lo so bene! E a loro, a questi tanti, mi appello: superiamo le meritorie iniziative singolari e proviamo a pensare di nuovo ad azioni condivise?
In tempi di segregazione morale e materiale, in tempi di mortificazione fisica ed economica, sarebbe bello rilanciare quella voglia – utopica? – che fu del Teatro degli Artisti, dove arrivammo, da tutta Italia, per sostenere il lontanissimo, sconosciuto ai più, Teatro dei Burattini di Mostar.

Certo, c’è il virus, c’è la distanza, ci sono i protocolli, ci sono le pigrizie, ci sono le paure. C’è tanto disincanto. Si fa fatica: io per primo, ormai, troppo spesso assisto inerte. Di fronte a certe situazioni mi limito a scrollare le spalle, a un sorriso di “ironico distacco”, come se avessi capito tutto, come se sapessi già che “tanto è inutile”. Mi sto facendo orrore! E mi immagino cosa penseranno giustamente certi colleghi leggendo queste righe: sveglia Andrea, sono anni che ci battiamo su mille fronti! Dov’eri tu? È vero, ho fatto solo alcune di queste battaglie recenti, e lo spaesamento di adesso forse è solo mio, o è proprio un errore, frutto di una falsa percezione del reale. Basti pensare a Milo Rau che va a Mosul o in Amazzonia, ai tanti che hanno coraggiosamente portato il proprio teatro in zone di conflitto e di crisi. Le cose accadono, ci sono artisti e artiste determinati nella loro azione. Ma da noi?
Ma mi piace comunque pensare, e sempre più, a un teatro che non sia solo meravigliosa estetica o nobile intrattenimento, che non sia solo lavoro e para/sindacalizzazione, che non sia semplicemente ricerca individuale o sapiente esoterismo. Un teatro che vada oltre la dittatura dei bandi e le miopie di tante amministrazioni. Un teatro che sia mobilitazione collettiva da realizzare attraverso gli strumenti del teatro. Che rivendichi sempre più la sua natura poetica, sociale e politica di impegno collettivo.
Qui. Adesso. Se non ora quando?
C’è qualcuno che ne vuol parlare?

 

 

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