Teatro
E no, il teatro non è morto: lo spirito del tempo vive a San Pietroburgo
Io li capisco quelli che dicono “il teatro è morto”. Lo fanno certo con una dose di compiacimento, ma sinceramente. Magari hanno vissuto stagioni particolarmente intense, momenti storici e indimenticabili della storia dello spettacolo, oppure ancora si sentono a disagio di fronte all’oggi, a quanto accade, e non si riconoscono più.
Li capisco, ma non condivido.
Però, comprendo anche il desiderio di provocazione, di dare spazio a una distopica e personalissima narrazione di cui si fanno alfieri. Perché poi accade, invece, che questo ipotetico “morto”, questo teatro si riveli, quanto meno, uno zombi vivacissimo e dispettoso, un “revenant” ostinato, capace ancora di mettere paura. Perché il teatro, quel vecchio morto, continua a risollevarsi da terra, a essere scomodamente presente nell’immaginario collettivo, a insinuarsi in modo inatteso in contesti e situazioni in cui non dovrebbe stare.
Capita anche durante le feste, no?
Qualcuno si toglie la maschera, e dietro il trucco svela un disagio, una qualche scomoda verità. Così è accaduto a San Pietroburgo, con la diciassettesima edizione del prestigiosissimo Premio Europa per il Teatro arrivato nella città russa con il supporto organizzativo del Baltic House Theatre Festival.
La festa, insomma, era bella, tutto procedeva per il meglio. Il gran premiato era l’orgoglioso padrone di casa, un maestro della regia russa, quel Valery Fokin che ha riportato agli antichi splendori uno storico tempio del teatro internazionale come l’Alexandrinskij (tra l’altro Fokin è al Piccolo teatro di Milano per la Stagione russa, che va avanti sino al primo dicembre). Ebbene, nello scintillante Alexandrinskij, a due passi dalla Prospettiva Nevsky, la sala era gremita e felice per l’occasione. Non senza ironia, Fokin ha usato la scenografia (e gli attori) del suo intenso Masquerade – nella ripresa e riadattamento della versione creata da Mejerchol’d nel 1917 – e la cerimonia si è svolta tra maschere elegantissime di una Commedia dell’Arte stilizzata e rinnovata.
I saluti ufficiali, i video celebrativi, i discorsi di rito, gli applausi. Poi qualcuno ha svelato la scomoda verità, ha tolto la maschera. Il morto ha ripreso a camminare. In fretta, molto in fretta.
A San Pietroburgo c’erano tutti. La città, infatti, ha ospitato contemporaneamente il Premio Europa per il Teatro, l’assemblea dell’Associazione Internazionale Critici Teatro e, infine, il Forum delle Culture. Registi, attori, musicisti, critici, studiosi di tutto il mondo sono convenuti sulle sponde della Neva per un programma fittissimo di incontri, conferenze, spettacoli.
Il Premio Europa – che in passato ha riconosciuto i maggiori protagonisti della scena internazionale – è stato fondato nel 1986 e questa edizione è andato appunto a Valery Fokin e all’attrice Nuria Espert. Nessun dubbio sulle qualità artistiche dei vincitori, meritatissimo l’omaggio.
Il riconoscimento “Europe Prize Theatrical Realities”, invece – destinato ad artisti ancora “in crescita”, per quanto già superaffermati – è stato assegnato al coreografo Sidi Larbi Cherkaoui, al gruppo svedese Cirkus Cirkör, al regista polacco Jan Klata, al portoghese Tiago Rodrigues, al francese Julien Gosselin e a Milo Rau.
E lui, proprio lui, il regista svizzero Rau, è stato colui il quale ha avuto la forza di sollevare la maschera: quello che ha interrotto il gioco rutilante e sempre un po’ noioso delle premiazioni.
Milo Rau non era in città. Non era nemmeno in Russia. Non ha ricevuto in tempo il visto per l’ingresso. E così ha inviato un messaggio, che è stato letto dall’insigne studioso e critico George Banu. «Non posso essere a San Pietroburgo – ha scritto Milo Rau nel suo messaggio (NB: la traduzione è mia) – e mi spiace molto poiché sono felice del Premio che mi viene assegnato. Eppure, non sono sorpreso delle difficoltà per ottenere il visto di ingresso in Russia. Da quando abbiamo fatto il progetto “The Moscow Trials”, cinque anni fa, in cui abbiamo esaminato criticamente il tema della libertà artistica in Russia, non ci è stato più possibile entrare in questo Paese – sia per “Manifesta” o per il “Golden Mask festival” o per altri eventi. Ci sono sempre problemi. Questa volta, ad esempio, prima la lettera di invito ufficiale è stata considerata incorretta, poi mi è stato detto che mi sarei dovuto rivolgere a un’altra Ambasciata e così via. Ma, per quanto assurdo possa sembrare, il fatto che io non sia al Premio è del tutto irrilevante. Niente più di una stupida formalità. Irrilevante rispetto al fatto che il collega regista Kirill Serebrennikov, che ha ottenuto lo stesso Premio, sia sotto processo per accuse grottesche. Non ha potuto ritirare il premio nel 2017 e non può farlo oggi perché è ancora agli arresti domiciliari. Il Premio Europa per il Teatro arriva in Russia e non possiamo non dire ufficialmente qualcosa su Kirill Serebrennikov».
Il discorso di Rau affonda la lama: «Come possiamo celebrare la forza e la libertà del teatro, come possiamo festeggiare noi stessi e il dialogo europeo, e rimanere in silenzio sul fatto che il vincitore della passata edizione sia oggetto di accuse ridicole? Il caso di Kirill Serebrennikov, è quello delle Pussy Riot, è anche il mio e di tutti noi».
Potete immaginare il sorriso gelido delle tante autorità presenti. George Banu, ovviamente, non si è scomposto nel leggere questo spinoso testo di Rau che, anzi, ha dato il via a ulteriori prese di posizione.
Sulla stessa linea, infatti, si è schierato il polacco Jan Klata, che ha fatto un discorso brevissimo, affermando, ironicamente, che la sua lingua era agli arresti domiciliari. Sul tema è tornato anche il maestro Lev Dodin, autorità indiscussa del teatro russo, auspicando una felice e breve soluzione del caso Serebrennikov.
Insomma, proprio Kirill Serebrennikov è stato – oltre a Milo Rau – il grande assente: sul capo del regista “dissidente” costretto ai domiciliari, già direttore artistico del Gogol Centre, artefice di spettacoli aguzzi, taglienti, critici nei confronti del establishment russo, pesa una grottesca accusa di distrazione di fondi pubblici e truffa. La storia insegna: quando i politici non sanno come censurare gli artisti, si aggrappano a questioni amministrative. Accadde, per fare solo un paio di esempi, al Living Theatre con il governo degli Stati Uniti, o a Giorgio Strehler con quello italiano. Di fatto, Serebrennikov è ancora in attesa di giudizio: speriamo, come tutti, che la triste vicenda si risolva al meglio e al più presto.
Parlando, infine, anche a nome di Jack Lang, presidente del Premio Europa, Alessandro Martinez, da sempre motore pulsante della manifestazione, ha ricordato quanto e come «… quando pensiamo all’Europa, pensiamo a quella dei 47 Paesi, compresa la Russia, che dovrebbero operare per la difesa dei diritti umani, democratici, dello stato di diritto, dell’identità culturale e sociale e della libertà».
Chissà se il messaggio sarà davvero recepito.
Ma a San Pietroburgo c’è stato, ovviamente, tutto il tempo per gli spettacoli. A partire proprio da quel Masquerade, il “Ballo in maschera” di Lermontov, tutto ardori e pantomime. Spettacolo raffinato, coniato sulle invenzioni storiche di Mejerchol’d, virato da Fokin a un presente ancora più cupo. Di Fokin avevamo visto anche una versione piuttosto classica del brechtiano Schweik: bei momenti, articolata coralità, amara ricostruzione del conflitto mondiale. Ma sette finali uno dopo l’altro ne hanno appesantito non poco la fruizione.
E il Premio Europa ha mostrato anche le derive punk di Jan Klata, già conosciuto in Italia (venne alla Biennale di Venezia con un Re Lear ambientato in Vaticano!), che in Russia ha presentato un sovraccarico Nemico del Popolo di Ibsen che, in un interno sempre più devastato, arringa la platea sulle contraddizioni vissute dalla Polonia di oggi. E in cartellone c’era anche l’elegante Hamlet di Dodin; o ancora Elvira o la passione Teatrale, interpretato da Toni Servillo con il Piccolo Teatro di Milano, applauditissimo nel bel contesto del Maly Teatr.
Qualche sbadiglio – almeno per chi vi scrive – ha accompagnato il languore compiaciuto delle soffici produzioni di Tiago Rodriguez; mentre grande curiosità ha suscitato, così mi dicono, il russo Andrej Moguchy con le sue radicali proposte che però non ho visto.
A far da coronamento, o forse da contestualizzazione filosofica, alle giornate sanpietroburghesi, è stata una conferenza di George Banu, dedicate proprio allo “spirito del tempo”. Evocando un film come La Chinoise di Godard, capace di annunciare il Maggio del ’68 prima del “Sessantotto”, nel suo ampio e articolato intervento Banu ha ricordato come: «Lo spirito del tempo può diventare “moda”, la moda è la versione light dello Zeitgeist, dello spirito del tempo, ormai completamente integrato. Così assistiamo alla caduta nella moda che ha come scopo, senza requie, di affermare la propria modernità con mezzi “moderni”, ma già ampiamente esplorati».
Ecco allora, lo spirito del tempo su cui riflettere dopo le giornate di San Pietroburgo. Ecco allora lo zombi che ancora si agita nelle strade del mondo.
Ben oltre l’estetica, la confezione, l’eleganza immaginifica di qualsiasi spettacolo, in teatro vibra una pulsione sotterranea e dirompente, che è quella della dissidenza, dell’essere davvero “contro”. In questa prospettiva, la scena internazionale si sta ricollocando rispetto alle tensioni e alle contraddizioni del presente. Ed è in quest’ottica, allora, che sembra sempre più difficile dire che il teatro sia “morto”. Acquista anzi rinnovato senso: è un teatro che sa porsi come discontinuità, frattura, confronto dialettico, e può tentare di tenere alta la bandiera della discussione, del confronto e in definitiva della democrazia. In Europa, in Grecia come in Russia: nella San Pietroburgo di Mejerchol’d oppure di oggi.
Nel ballo in maschera delle crisi economiche, nella ferocia realizzata di modelli sociali aspri e violenti, siamo sospesi tra libertà e (in)tolleranza: ma c’è chi continua a scardinare le certezze, a porre domande, a interrogare, a fare i nomi, senza accontentarsi di risposte superficiali. Incalzato da uno “spettro”, molto diverso da quello evocato oltre un secolo fa, che si aggira inquietante e nero per l’Europa, il teatro tante volte dichiarato morto vive, si interroga e ci interroga sullo spirito del tempo.
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