Teatro

E il teatro italiano che se ne fa dell’Africa?

21 Aprile 2019

Devo alla regista Alessandra Cutolo la scoperta di un libro estremamente interessante: Afrotopia, di Felwine Sarr. Il volume, di cui avevo già sentito parlare, è pubblicato dalle Edizioni dell’Asino, ed è una appassionata e vivacissima presa di posizione critica nei confronti della “antropologia coloniale”, di quella “biblioteca coloniale” che ha segnato – e segna – il punto di vista occidentale sull’Africa.

Presentato nel vivacissimo spazio di Spin-Off, all’interno di un enorme edificio occupato a due passi da Piazza Vittorio, a Roma, Afrotopia è stato spunto per una riflessione ampia anche sul rapporto tra Italia e Africa non solo e non tanto nella chiave ormai pervasiva dell’Immigrazione.

Sarr, con una scrittura lineare e al tempo stesso approfondita, guardando al futuro, cambia il punto di vista, ossia riprende il “discorso africano sull’Africa”, sottraendolo appunto al «dominio psichico» europeo, ossia quella mentalità che aveva come scopo di «giustificare e consolidare l’impresa coloniale, guardando le culture extra occidentali con l’idea della superiorità culturale e del pregiudizio razzista». Si tratta di operare – afferma chiaramente Sarr – una «trasformazione radicale delle scienze umane e sociali, dell’apparato culturale, così come sono trattate e insegnate nelle università». Quel che serve e sembra urgente, insomma, è di «decostruire la ragione coloniale attraverso una critica radicale dei discorsi prodotti, del quadro teorico, delle basi ideologiche e dei sistemi serviti per “patologizzare gli Africani”». Evocando il sociologo Valentin Mudimbe, nel libro Afrotopia, Sarr ricorda dunque come «L’occidente abbia creato il selvaggio per civilizzarlo, il sottosviluppato per svilupparlo, il primitivo per fare etnologia».

In questa prospettiva la questione “linguistica” appare allora centrale: «cambiare lo strumento linguistico provocherebbe una rottura e aprirebbe la via a una nuova avventura per l’Africa, proprio come fecero i greci con la cultura egiziana, riorganizzando il sapere». Per Felwine Sarr, ricorrere alle lingue africane permetterebbe non solo di decolonizzare spiriti e immaginari, ma di rivelare l’interiorità e gli universi significanti in un senso nuovo per gli africani.

Un primo passo per superare la biblioteca coloniale – secondo Sarr – è il ricorso alle “fonti africane”, ossia la conoscenza delle culture autoctone, in un processo che il premio Nobel Wole Soyinka chiama “Self Aprehension”: un apprendimento di sé attraverso di sé, senza riferimento all’Altro (ossia all’Occidente). E Sarr cita anche l’opera del filosofo Mamoussé Digne, il quale parte dall’analisi della “ragione orale” e mette in evidenza i processi, i modi di produzione, di conservazione e di trasmissione delle conoscenze e dei saperi. La tradizione orale (ossia proverbi, racconti, epica e, aggiungo io, il teatro) non solo identifica il pensiero africano, ma ha saputo anche conservarlo e metterlo in circolazione.

Ed è qui, quindi, che per quel che ci riguarda possiamo ampliare la riflessione al fenomeno che gli studiosi chiamano Teatro Post Coloniale. Felwine Sarr ci dà un’indicazione preziosa: «ripensare il ruolo delle culture, perché serve una critica a ciò che limita l’umanità, la tiene bloccata, la avvilisce». Paradossalmente, il teatro – strumento coloniale per eccellenza – si presta perfettamente allo scopo. Quando gli europei impiantavano, violentemente, una colonia, uno dei primi segni di cultura e civilizzazione imposta era proprio la presentazione del teatro europeo.

Già dal 1600 si registra la costruzione di spazi teatrali e l’allestimento di opere nelle colonie: in Jamaica, in Martinica, in India o nella “Nouvelle France” che era il Canada, si davano spettacoli per ufficiali e truppe che volevano intrattenimento, lavori che riproducessero modelli imperiali per stile e temi. Vi erano inclusi anche diversi elementi della realtà locale, così che il produttore della commedia poteva mettere in scena un personaggio indigeno ma sempre come un ubriacone, un outsider, in definitiva qualcuno ridicolo, comico, marginale, su cui ridere.

Da allora qualcosa è cambiato: al punto che, nella chiave “post-coloniale”, il teatro agisce come spazio di resistenza usato dai soggetti colonizzati. Scrivono Hellen Gilbert e Joanne Tompkins: «la manifestazione di forme di pre-contatto performative, rituali, canzoni, musica, linguaggio storia, narrazione, facilitano il reinserimento della cultura indigena a dispetto dei tentativi coloniali di sradicare quanto di non europeo esisteva. La revisione di testi classici, poi, aiuta a decostruire l’autorità egemonica inscritta nell’originale. La combinazione sincretica delle forme indigene e coloniali nel mondo postcoloniale contribuisce anche al decentramento della norma europea. Sono insomma forme di teatro ibrido che riconoscono che il colonialismo non può mai essere cancellato per tornare alla purezza del pre-contatto: piuttosto l’ibridazione rinforza il fatto che i processi egemonici continuano a richiedere infinite decostruzioni».

Come scrive Awam Amkpa, nel saggio “Ansie coloniali e desideri post-coloniali: il teatro come spazio di traduzione”, la produzione teatrale di scrittori quali Wole Soyinka, Femi Osofisan, Ngugi wa Thiong’o, Ama Ata Aidoo, Micere Mugo, Labu Tansi e Rose Mbowa e molti altri, «hanno nei loro specifici stili, focalizzato la nostra attenzione sull’anomalia esistenziale dei paesi soggetti al colonialismo, presentando e rappresentando i contesti della loro cultura e del loro pensiero. Nelle loro opere, questi autori mappano e contestualizzano la questione coloniale europea e le strutture neo coloniali successivamente inventate. Lo scopo, assolutamente conscio e determinato, è di sovvertire e limitare l’epistemologie e angoscie esistenziali della questione stessa (ovvero) lavorano per un cosciente sviluppo del soggetto dominato: queste energie attivano un senso di altro e di cittadinanza immersa in una cultura globale il cui vocabolario dell’esistenza e della consapevolezza offre molto potenziale alla loro creatività. Con il loro lavoro, riescono a innestare quello che Homi Bhabba chiama la “decorporazione proiettata”, nel tentativo di ricercare dei punti di contatto tra le assi colonialmente definite di “nativo” e “straniero”, barbaro e civilizzato, e sviluppare proprie metafore o soggettività».

Insomma, detto in parole povere, il teatro che serviva a consolidare la prospettiva coloniale, la cultura dei dominanti, è stato rivoltato completamente, e pur mantenendo strutture e forme tradizionali occidentali, è diventato campo di ricerca linguistica africana, di critica sociopolitica, di demistificazione dei miti e delle leggende dei coloni. Costretti dalla storia coloniale, questi autori hanno reagito e reagiscono aspramente, si rivoltano: «la lingua della critica post coloniale, dell’imperialismo ed eurocentrismo – afferma Awam Amkpa – non è solo un prodotto della crisi ma a sua volta è produttrice di crisi che destabilizza significati e interpretazioni della realtà sociale e culturale».

Il guaio, invece, è che nelle pratiche della narrazione teatrale italiana e europea, la questione è relegata spesso solo alla dimensione della immigrazione. L’uomo africano, insomma, non è visto come portatore di cultura, ma semplicemente come portatore di problemi (addirittura di malattie!). E il nostro teatro reagisce, pur coraggiosamente e generosamente, alle contraddizioni della dichiarata “emergenza nazionale”, senza però trovare – almeno a me sembra – ancora vie d’uscita creativa adeguate. Il teatro coinvolge “l’immigrato”, ma troppe volte rischia di limitarlo, di congelarlo e condannarlo a quel ruolo.

Spettacoli che, anche nell’innegabile qualità scenica, parlano solo di viaggio, di affondamenti, di barconi, di violenze non fanno altro che fotografare la realtà per quella che è. Nessuno o quasi, si sogna di mettere in scena Soyinka o Femi Osofisan, Can Themba o Aimé Cesaire (tanto per citare i più noti), ma in tanti continuano a usare coperte termiche e tamburi, pensando che questo basti.

Non solo: il discorso potrebbe farsi più ampio, pensando ad esempio a quanto le platee siano tutte bianche, e a come nel teatro mainstream anche i cast siano tutti bianchi.

Di fatto, il rapporto della nostra scena con la cultura africana è ben lungi dall’essere risolto, e forse neppure seriamente affrontato. Un confronto serio e critico con le culture teatrali africane potrebbero anche mettere in seria discussione il conclamato occidentalismo della nostra scena. Lo sapeva bene Peter Brook che alla fondazione del suo Centro di ricerca alle Bouffes du Nord ritenne necessario un lungo viaggio, di anni, in diversi paesi dell’Africa subsahariana, proprio per capire meglio e confrontarsi al meglio con quelle genti e culture. Oggi affrontiamo, certo, il tema scottante della immigrazione però l’Africa, per tornare al saggio di Fewine Sarr è molto più della sua emigrazione: i drammaturghi, i registi, gli attori africano lo sanno bene. Aspettiamo fiduciosi che lo scopra anche il teatro italiano.

 

Nella immagine di copertina: una scena di Ruined di Lynn Nottage, regia di Kate Whoriskey. Foto di Liz Lauren.

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