Teatro

Due terroristi sotto la torre Eiffel (ma a teatro…)

24 Marzo 2016

In questi giorni bui ho visto due spettacoli importanti. Il primo è La distruzione della torre Eiffel e il secondo è Fa’afafine (ma di quest’ultimo vi parlerò più avanti).

Il lavoro di Jeton Neziraj, kosovaro di Pristina, è stato scritto tra il 2010 e il 2011 e forse nemmeno l’autore avrebbe mai immaginato che il suo dramma sarebbe stato così preveggente. La distruzione della torre Eiffel è non solo un titolo emblematico, ma un grido d’allarme. È un testo di grande forza, di impatto devastante per come, calibrando scena dopo scena, parola dopo parola, riesca a raccontare pensieri, dinamiche, relazioni di un gruppuscolo di terroristi islamici approdati in “occidente”, in Francia.

Dobbiamo alla studiosa e critica Anna Maria Monteverdi la scoperta di questo autore (e a Monica Genesin la traduzione): Anna Maria ha anche realizzato un bel documentario (passato in Rai) sul nuovo teatro del Kosovo. Per quel che mi riguarda, ho avuto occasione di vedere lo spettacolo nella bella stagione del teatro Koreja di Lecce, seguito con grande attenzione dal pubblico.

La struttura è semplice ed efficace, anche tradizionale tanto da evocare ed usare – sapientemente – quel teatro d’ombre e di figura che ha grande storia in tutti i Balcani.

La distruzione della torre Eiffel
La distruzione della torre Eiffel

Ma è, soprattutto, un racconto per stazioni, di impianto fortemente brechtiano (la regia è di Blerta Neziraj moglie dell’autore), che cala progressivamente i quattro interpreti in un susseguirsi di stazioni sempre più stringenti, addirittura angoscianti. Il piano narrativo slitta temporalmente e geograficamente in situazioni diverse: ci son i due terroristi, Habib e Ghalib, che vogliono catturare un occidentale colpevole di “svergognare”, sollevando il velo, le donne musulmane. Ci sono le stesse donne, intimidite, umiliate, eppure fortissime. Poi c’è la storia del ragazzo, Josè, che si era innamorato di Aicha, venditrice di rose, incontrata chissà quando in una strada di Parigi. Lei sceglierà di mettersi il velo, abbraccerà la fede, e lui, che non si rassegna a mai più riverderla, continuerà a cercarla e a “svelare” ogni donna che incontra. E se la vicenda di José e Aicha si mescola con il mito di Orfeo e Euridice, nella storia si insinua, a contrappunto e spiegazione, anche una leggenda islamica, quella di Osman, soldato del Sultano Abdul-Hamid II, detto il sultano rosso, che dalla Turchia di metà ottocento spedì i suoi emissari ovunque per fare propaganda alla fede, donando quei veli che le donne avrebbero dovuto indossare. Anche Osman cadrà innamorato di una giovane fanciulla, cui impone il velo ma che non riconoscerà più. Gli resterà solo un dipinto, fatto da un pittore cieco, che la ritrae velata. Il destino delle due ragazze è simile: allora come ora, nascoste dal velo.

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Nella scena fortemente stilizzata, solo pannelli e qualche oggetto, i quattro interpreti (sono bravi in più ruoli Adrian Morina, Ernest Malazogu, Shengyl Ismaili, Armend Ismajli) giocano con toni straniati alternati a slanci immedesimativi, in cui entrano anche evocazioni di ritualità riconoscibili ma non identificabili.

Sono tanti, infatti, i rimandi che si sovrappongono e si incrociano, dando all’opera un respiro epico e concretissimo. Ma la forza del testo risiede nella capacità di raccontare – o solo suggerire – anche prospettive diverse, ovvero il punto di vista dell’Altro. Cambia la “soggettiva”, si capovolge il cannocchiale, per mostrare il mondo “alla rovescia”, rendendo teatro le tensioni straordinarie dei non-eroi di questa storia. Tra “noi” e “loro”, il tema su cui fanno perno i guerrafondai, proviamo ancora a capire cosa pensano, cosa vivono, anche “loro”. E forse solo con la comprensione (reciproca) qualche passo avanti si può fare.

Ci sono battute folgoranti, alcune esilaranti, altre taglienti che voglio riportare: «Sono così gli europei. Si riempiono la boca di “diritti dell’uomo”, di “democrazia”, di “libertà di religione”, ma quando si tratta di musulmani si dimenticano di tutto questo. Accetterebbero di vivere con degli extra terrestri che con noi».

E quando uno dei due terroristi chiede chi siano i musulmani “moderati” tanto apprezzati in occidente, l’altro non ha dubbi: «I musulmani pecora, che non hanno nulla a che fare con l’Islam. Quelli ai quali non importa nulla che la Francia impedisca o meno l’uso del velo, che la Svizzera impedisca la costruzione dei minareti, che le ragazze che portano il velo siano escluse dalle scuole tedesche! Quelli che si interessano a tutto meno che all’Islam». Ma non mi si fraintenda, in questa sintesi forzata.

La distruzione della torre Eiffel non è una giustificazione né un testo apologetico, semmai è acuto, ampio, fortemente dialettico. Prova a raccontare come, e perché, si possa arrivare a tanto. Senza pedagogismi inutili, con una asciutta e aguzza scrittura, affronta anche la questione – tragicamente attuale – dei kamikaze con un giudizio netto, ma non privo d’ironia.

Racconta una delle donne: «La prima volta voleva far saltare in aria un hotel dove, disse, c’erano gli infedeli. Ma ritornò a casa vivo perché aveva visto che la polizia stava presidiando l’hotel, perché pare che quel giorno ci fosse qualcuno di importante. Quando tornò a casa, i suoi amici cominciarono a levargli la massa di plastica che ricopriva gli esplosivi. Gli faceva male, aveva la pelle bruciata “L’avete fissato troppo stretto”, gli ho sentito dire ai suoi amici. “Beh”, replicò uno di loro, “come potevamo supporre che saresti tornato?”. Risero per un minuto, ma poi lui tornò triste. Non avevo mai visto mio marito così depresso come quel giorno in cui non era stato in grado di farsi esplodere».

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E altrettanto spietatamente Neziraj, in questo racconto in cui si affondano le mani pesantemente nelle contraddizioni del fanatismo religioso, indaga le relazioni padre-figlio, così come quella marito-moglie, una volta segnate dalla presenza invadente della fede.

Eppure forse c’è una possibile salvezza, un segno di speranza, che emerge nel suggestivo finale: un segnale quasi di speranza, certo non consolatorio, che sembra evocare il Simurgh del mistico persiano Farid Attar: «Cerca la ricerca e anche la ricerca della ricerca» dice Neziraj.

Non so: mentre a Bruxelles esplodono bombe, mi piace pensare (laicamente e certo molto superficialmente) a quei trenta uccelli cantati da Attar che alla fine del faticoso viaggio alla ricerca del dio, troveranno solo uno specchio.

 

 

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