Teatro
Due regie di César Brie a Roma
Due regie di César Brie, con il garbo e l’eleganza che contraddistingue questo artista, si sono susseguite sui palcoscenici romani. Spettacoli diversi tra loro, per tematica e afflato, eppure accomunati da un sentire, da un gusto ovviamente simile. Su César Brie è stato scritto e detto molto: il regista e autore apolide – argentino d’origine, e italiano d’adozione, ma anche boliviano, con il suo mitico Teatro de Los Andes, o danese per percorsi teatrali intrecciati a quelli dell’Odin Teatret – certo merita ogni attenzione. È un artista dalla cifra al tempo stesso raffinata e semplicissima, poetica ma di una poesia popolare, umile, terrigna, a tratti sentimentale. Eppure quel suo sguardo delicato sulle persone e sul mondo non perde mai di vista una dimensione politica, militante, addirittura battagliera. César Brie ha rischiato tanto, personalmente e direttamente: ad esempio per non aver voluto chiudere gli occhi di fronte a fatti brutali avvenuti a Sucre, in Bolivia, nel maggio 2008, o sul massacro avvenuto l’11 settembre 2008 sulla rive del fiume Tahuamanu, nella regione amazzonica boliviana. Ha realizzato due documentari (sono disponibili on line sul sito dell’artista, cesarbrie.com) per testimoniare quanto accaduto tra quella povera gente. Allora è bello trovare, nei due spettacoli visti a Roma, questa complessa modalità d’approccio e d’azione, tra poesia e politica.
Il primo spettacolo è andato in scena nel piccolo Teatro Argot: ed evoca più il coté poetico, l’attenzione affettuosa alla fatica di stare al mondo, l’amorevole condiscendenza con cui Brie da sempre guarda alla difficoltà di creare e formarsi una identità. Si intitola Suzanne ed è stato tratto, liberamente, dal romanzo “La Garçonne et l’assassin” del 2011,dei francesi Fabrice Virgili e Danièle Voldman, adattato per la scena da Lorenzo Garozzo, Tamara Balducci, Linda Gennari, anche attrici insieme a Giacomo Ferraù.
La storia è tratta da un fatto realmente accaduto e da subito il pubblico si trova precipitato in piena Prima Guerra Mondiale. Il protagonista è al fronte, terrorizzato, mentre sua moglie lo attende a casa, a Parigi. Lui diserterà, lei lo proteggerà: ma non riesce a tenerlo bloccato e nascosto in casa a lungo. L’uomo smania di uscire, di vivere, e per farlo decide di travestirsi da donna. Così inizia un’altra storia: quella di lui/lei alle prese con la vita notturna parigina degli anni “folli”, con la frenetica e morbosa libertà sessuale che all’imbrunire esplode al Bois de Boulogne. L’uomo, Paul, diventa la Suzanne del titolo: la regina della notte, con il corpo plastico di un febbrile Giacomo Ferraù. La moglie Louise, interpretata da un’elegante Linda Gennari, lo seguirà nelle scorribande notturne, scoprendosi a sua volta affascinata dalla perversione libertina di quell’ambiente. Il gioco di doppia personalità si fa concreta moltiplicazione scenicamente: se Ferraù è Paul, la brava Tamara Balducci diviene l’Altro – anzi l’Altra – da sé, incarnazione, specchio, proiezione di Suzanne.
Il tutto è ingabbiato in una sorta di confessione-testimonianza processuale, che consente alla narrazione di procedere per flashback, quadri, scarti onirici. Il tocco registico di César Brie, oltre che nella guida attenta degli attori, si riverbera nell’uso di pochi elementi scenici, una finestra che ruota sul proprio asse, la testiera di un letto, qualche oggetto, una semplicità che fa della scena spoglia il simbolico e concreto sguardo su una povertà ai limiti dell’indigenza, che come un capogiro muta nel mutar di identità. Allora la questione si apre a un dubbio, a un’ipotesi di lettura: lo spettacolo è subito tanto “appassionato” – forse un po’ troppo, quasi melò – a tratti lirico, con un affetto, una sincera adesione nel ritrarre quei personaggini semplici, poveri, che perdono la testa per una vita altra, scintillante, erotica, ambigua, piena. Viene da pensare, però, che al di là della necessaria, libera e legittima ricerca di una propria identità sessuale, qui vi sia anche, sottotraccia, un sottile ragionamento sulla lotta di classe, su quei sottoproletari sconvolti dalla guerra che per ri-animarsi cambiano pelle, per affermarsi nel “gran mondo”, accettano il demi-monde, diventano altro e altri pur di provare a sognare. E il tribunale, alla fine, forse li processa per questo, per aver troppo sovvertito la gerarchia sociale.
Di natura più smaccatamente politica è l’altro spettacolo, visto al Teatro India. Qui la scrittura del drammaturgo Roberto Scarpetti spinge César Brie a evocare anni da lui ben conosciuti e vissuti. Nel 1975 a Milano, Brie aveva dato vita a un gruppo, il Collettivo Teatrale Tupac Amaru, che gravitava proprio attorno ai centri sociali, l’Isola o il Leoncavallo che è il protagonista celato di Viva l’Italia, le morti di Fausto e Iaio.
Proprio dietro al Leoncavallo avvenne l’omicidio. César era a Milano, a manifestare il giorno dopo l’assassinio, era là a combattere, con le parole e il teatro, la guerra che vedeva altri usare le armi. Scarpetti e Brie, dunque, evocano, ricostruiscono, spiegano, ragionano sull’uccisione di due giovanissimi militanti di sinistra, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, detto Iaio, avvenuto il 20 marzo 1978, appena due giorni dopo il rapimento di Aldo Moro. Gli anni di piombo, delle trame, degli attentati, dei depistaggi, degli assassini, della politica marcia: tutto entra in questa storia.
Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un lavoro spoglio, asciutto, rigoroso: con pochissimi elementi scenici e un cast compatto che gioca su più ruoli e dà vita a un teatro-documento (quasi un verbatim theatre come direbbero gli anglofoni) che non è narrazione, né fedele e pedissequa ricostruzione, ma gioco teatrale netto, serio, vivo e impegnato che si avvale anche di video per dare collocazione immediata alle scene. Le storie dei personaggi si intrecciano, svelando frammenti di verità o finzioni, le prospettive si incrociano in rimandi continui tra microstoria e grande storia. Su tutto e tutti aleggia la cupa realtà italiana, le disinformazioni, la frustrante ricerca di una verità che, ufficialmente, non verrà mai. La disperazione della rassegnazione.
Non ci sono risposte in questo spettacolo: e quando alla fine, in una proiezione che sugella la chiusura dell’istruttoria, appare il nome di Massimo Carminati tra gli indagati per quell’omicidio, si capisce che i “ritorni” storici non sono una categoria letteraria, ma un’amara, concreta, realtà con cui non dovremmo smettere di fare i conti.
Bravi gli attori, tutti generosi: spicca Alice Redini, dolente e sensibile, con Andrea Bettaglio, Massimiliano Donato, Federico Manfredi e Umberto Terruso. Il testo è di qualche anno fa, debuttò all’Elfo Puccini nel 2013, e fu Premio Riccione nel 2011, ma ha mantenuto forza, la sua estrema capacità di far ricordare qualcosa in questo paese dalla memoria troppo lasca. La scrittura di Scarpetti ha momenti di grande struggimento, di consapevole e matura scrittura: quel narrare, fare la cronaca, dettagliatamente, analiticamente la sensazione fisica delle morti, delle tante vittime di questa vicenda, affidata direttamente ai personaggi, è forse la chiave per capire questa e tante altre pagine oscure d’Italia.
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