Teatro
Due mostre su Ronconi viste da chi l’ha solo sfiorato
Ho iniziato tardi a vedere Ronconi, a università inoltrata. Per tutto il liceo consideravo come unici responsabili di uno spettacolo le sacre e defunte triadi: Shakespeare-Ibsen-Čechov, Pirandello-Goldoni-Machiavelli, Eschilo-Sofocle-Euripide. Poi il Sogno, il Mercante, autori che non avevo mai sentito (Bond, Spregelburd) mi hanno fatto ripensare al ruolo del regista, a chi in teatro sia davvero autore – anche pirandellianamente – e che la scena si fa ogni volta, che è performativa, una bestia vivente.
Tempo, spazio e parola sono al Piccolo l’apriti sesamo del nascondiglio di Luca Ronconi. Non è una mostra ma un’installazione multimediale per una sola stanza, nel nuovo spazio RovelloDue inaugurato il 19 febbraio, con l’involucro di Infinities che occupa tre pareti su quattro. Paradossi su alberghi infiniti, vita eterna e viaggi nel tempo: finalmente liberi dalle trame, dai personaggi, dai sentimentalismi delle signore in pelliccia che vogliono vedere come andrà a finire. Niente può concludersi perché tutto è fin da subito inclassificabile: né commedia né tragedia, in scena solo un’astratta e sfuggente suggestione.
Nell’installazione, chi calpesta le tre parole proiettate in terra attiva la lanterna magica sulla quarta parete. E ritorna come un’ombra il perpetuo incastro di porte e botole della Celestina, o l’equilibrismo aereo di Solomon Paprinskij in Lehman Trilogy, o ancora il senso di minaccia della Compagnia degli uomini. E poi la marmorea possanza di Prometeo incatenato, la scena proiettata in duplicato di Lolita, il cavallo che galleggia sul praticabile in Calderón de la Barca, la Maisie di Mariangela Melato con la sua bambola. Tutte caselle dell’interminabile gioco da tavola ronconiano, che con una lenta edificazione ha inglobato ogni aspetto della realtà. Come Cariddi il teatro di Ronconi è fagocitante perché teatralizza tutto: narrativa, fisica, finanza.
Due volte compare tra i filmati Lehman Trilogy, unico spettacolo caldo ancora da replicare, un testamento. I fratelli Lehman sono un punto di arrivo: il ritorno alla parola, senza musica, una scena che quasi non è una scena, una sedia si sposta, si apre una botola e poco più. E regna la terza persona, gli attori a malapena si guardano, l’intreccio passa attraverso il pubblico per tornare indietro ai personaggi, carico di nuova tensione.
Ogni spettacolo è come un colossal discreto, una prova grandiosa senza fini esibizionistici. Per questo il più grande laboratorio di Ronconi è sempre stata l’opera, dove aveva i mezzi per sperimentare buona parte di quello che gli veniva in mente. E così l’altro omaggio di queste settimane l’ha allestito la Scala, nel suo museo ma soprattutto nei laboratori dell’Ansaldo dal 24 febbraio, con il progetto di Margherita Palli, scenografa di Ronconi per trent’anni. Un camminamento sospeso tra i laboratori della Scala, in cui in questo momento si lavora sulla Cena delle beffe in stile Padrino di Mario Martone, prossimo debutto dal 3 aprile.
Ventiquattro tavoli da lavoro, uno per ogni produzione di Ronconi alla Scala. E intorno costumi appesi nel vuoto: quelli dei condannati incappucciati del Don Carlo di Luciano Damiani, le sirenette di Oberon di Vera Marzot, l’inquietante strascico pavonato di Clitennestra.
Ogni tavolo rimanda al ricordo, per chi può averne, di spettacoli irripetibili. Vale sempre la battuta metateatrale di Testori in Sdisorè: «Questo spettacolo, così come l’avete visto stasera, non si ripeterà mai più». Per chi non ne ha visto nessuno il gioco è quello di scrutare la valle come se si fosse arrivati sulla cima solo all’ultimo momento, barando un po’. E inventarsi qualcosa sfruttando senza vergogna i racconti di chi c’era, per poi capirne di più con i video, gli schizzi e le fotografie in mostra.
Capire perché in Lodoiska gli alberi sono messi in orizzontale come se il pubblico guardasse il cielo da sdraiato, o perché nel Wozzeck il fango scorre continuamente da una parte all’altra di un palcoscenico inclinato, o quale sia il senso di una Suor Angelica tutta recitata sopra a una statua della Madonna – mi ricordo le locandine del Trittico di qualche anno fa, ma allora per me l’autore era soltanto Puccini: mi illudevo che avrei potuto rivederlo in qualsiasi edizione.
Margherita Palli ha cercato di spiegarmi: «Ronconi partiva sempre da qualcosa di molto storico e ci lavorava fino a trasformarlo completamente, per esempio in Lodoiska avevamo cominciato a ragionare sulla prospettiva neoclassica dal sotto in su per poi finire con Sing Sing». Poi Oberon, con l’idea dei panorami che si srotolano come nei vecchi esperimenti pre-cinematografici. Le architetture dipinte di Tosca, prese dalle cupole in falsa prospettiva di Andrea Pozzo e poi stortate a forza in un collage barocco con infinite prospettive. Lo sguardo sui carri dall’aldilà di protagonista e pubblico all’inizio della Damnation de Faust, e ancora l’isola di Böcklin dell’Arianna a Nasso che gira su se stessa mostrando dietro la sua copia, nella stessa versione davanti a cui si fece fotografare Hitler con Molotov. Ma gli stimoli non sono solo storici. Ronconi andava al cinema in continuazione, e vedeva di tutto, dai film vecchi al trash: «Aida per esempio è sostanzialmente un incrocio tra I predatori dell’arca perduta e i disegni di Auguste Mariette», dice la Palli.
Questo solo dal punto di vista scenografico. Poi c’erano tutte le sottigliezza di regia che a volte persino i suoi assistenti capivano solo a spettacolo montato. «In Tosca per esempio – racconta ancora la Palli – aveva fatto aggiungere un secondo altare in casa di Scarpia, sul lato opposto rispetto a quello che c’era già. Poi lo ha fatto apparecchiare per renderlo dissacrante, come a dire che Scarpia è solo un finto uomo di chiesa. E solo alla fine abbiamo capito che serviva per quell’allestimento da letto di morte che Tosca fa a Scarpia dopo averlo ucciso. Questa connessione non ce l’aveva spiegata: tante cose ce le teneva nascoste fino all’ultimo».
Ora due mostre a Milano evocano ricordi a chi già sa e spettri a chi non c’è stato o c’è stato solo per un attimo: nostalgia per i primi, mentre agli altri resta solo il rimpianto di una nostalgia.
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