Teatro
Due misure per Roma e Torino
Secondo il politologo Ekkehart Krippendorf: «tutto ciò che Shakespeare temeva riguardo al popolo e da cui implicitamente metteva in guardia, con osservazioni meticolose e diversificate, era la sua predisposizione alla demagogia». E aggiunge che fondamentale per il Bardo è «L’altruismo come bussola della morale politica, come misura della legittimità del governo e dell’azione del governo fondata sull’ordine cosmico (minacciato dal modo di agire sconsiderato – non ecologico – dell’essere umano): lo Shakespeare politico si muove (…) lontano anni luce dalla politica del presente e tuttavia più vicino alla realtà empirica di quello che oggi ci viene presentato come punto di riferimento. La politica è azione morale – oppure non è politica, è politica distruttiva, è agire distruttivo. La mancanza di affabilità tra gli esseri umani è contraria alle leggi dell’ordine universale (…) la politica e la morale sono così strettamente legate tra loro che ci può essere un atto totalmente apolitico in grado di scuotere la società e provocare una crisi».
Nel libro dedicato proprio allo “Shakespeare politico”, Krippendorf ricorda anche che «il mondo così come Shakespeare lo vede e, in un certo senso, come l’ha presentato e illustrato in un secondo atto creativo, ruota intorno a due grandi temi: il potere e l’amore. Nei drammi storici domina il tema del potere, nelle commedie quello dell’amore, mentre le tragedie contengono entrambi, seppure con rilevanza diversa».
È curioso, però, che il politologo tedesco, nella disamina dei testi shakespeariani, citi solo di passaggio un’opera monumentale e inafferrabile come Misura per misura che è, o potrebbe essere, un manuale di scienze politiche, ovvero – per dirla con Harold Bloom – un «dramma così amaro e feroce da non aver simili».
E non è un caso, forse, che nelle due grandi città amministrate dal Movimento 5 Stelle, ovvero Torino e Roma, siano andate in scena, pressoché in contemporanea, due versioni diverse dell’opera. Città in cui tumultuosa è stata la discussione preelettorale, dove forti si sono mostrate le tensioni tra centro e periferia, dove taglienti sono state le prese di posizione e altrettanto ampi – almeno per Roma, ma anche Torino non scherza – gli scandali che hanno coinvolto politici e amministratori. Misura per Misura, dunque, può essere letta come dimostrazione scientifica, come parabola, nemmeno troppo velata, della malversazione di chi amministra la cosa pubblica.
La storia è nota. Il Duca di una fantomatica Vienna lascia il governo: quale sia la ragione non si sa, di fatto resta sempre in città, mascherato da frate, quasi a spiare la “realtà” (magari proprio le periferie) per sondare lo stato d’animo dei sudditi. Lascia l’incarico al probo Angelo, uomo che si atteggia – o forse è – depositario di ogni virtù. In vena di populismo e di giustizialismo, il neo governatore manda subito a morte un giovane, reo di “fornicazione”. Deve dare il cosiddetto buon esempio, ed è intransigente, fino a che non andrà a supplicarlo una novizia, sorella del condannato, tanto devota quanto seducente nella sua purezza.
Il resto si può immaginare.
Concussione, ricatti, interessi privati, violenza sessuale, alto tradimento e chi più ne ha più ne metta.
La cosa interessante è che Shakespeare, mostrando, voleva probabilmente anche condannare: il Duca perché non si abbandona il potere che gestiva in senso morale e Angelo perché perde di vista l’altruismo, l’etica nella condotta politica. Due hybris, avrebbero detto i greci che pure se ne intendevano.
Ma oggi il peccato eclatante del borioso e ipocrita Angelo sembra cosa da nulla rispetto alla inventiva criminale di tanta parte politica. La sopraffazione, l’opportunismo, il cinismo, la perdita di vista dell’interesse collettivo a favore di quello personale sono ormai prassi quotidiana e consolidata. Ovviamente, e fortunatamente, non mancano le eccezioni: sono tanti gli amministratori seri, che con coraggio e fatica fanno il loro mestiere. Ma la politica, si sa, non è quella di una volta e negli scandali sguazziamo assuefatti. Nel primo giorno di lavoro del “nuovo” governo Gentiloni, però, vale la pena ascoltare le parole del vecchio Duca: il cui grido di condanna, una volta tornato al potere, è di disperante attualità.
Certo, Shakespeare vira al lieto fine: tutti si sposano, anche l’insopportabile Lucio. Ecco, semmai è lui, oggi, il vero protagonista. Il linguaggio della nostra politica non è più quello del Duca, ma nemmeno quello di Angelo: è piuttosto Lucio, l’opportunista, truffaldino, pronto a rinnegare l’amico e a cambiar di verità, la vera figura “tragica” del nostro tempo. Finirà condannato a sposarsi una prostituta: gli è andata fin troppo bene, ma lui – che tiene a se stesso e alla sua presunta dignità più d’ogni altra cosa – è disperato.
Allora, è difficile dar di conto di due spettacoli, simili e diversi tra loro. Provo, perché entrambi meriterebbero analisi ben più dettagliate.
Al teatro India di Roma abbiamo visto il debutto alla regia di un attore raffinato come Graziano Piazza. La sua versione del dramma è giocata sulla presenza attorale, in uno spazio vuoto, astratto, dove far risuonare libero, in tutta la sua forza, il testo originale.
Nel cast, Paolo Graziosi dà al suo Duca una rara umanità bislacca, che si rafforza paradossalmente nei pochi passaggi in cui le battute non arrivano subito alla memoria: è forte e distaccato, è umile e potentissimo quando, con slancio, il testo torna finalmente alla bocca.
Piazza, anche traduttore e adattatore, fa un Angelo sottile, ascetico, subdolo, quasi un Tartufo ante litteram, o uno Scarpia più raffinato: insomma, un devoto approfittatore come ne conosciamo tanti.
Infine Viola Graziosi, intensa e vibrante, è una ottima Isabella, sincera credente, una mistica in via di santità, ma suadente nella sua bellezza. Non esiterà, alla fine, a prendere la mano offerta dal Duca.
Nel gruppo – non tutto dello stesso livello – spicca la forza di Clara Galante, una madama che è collante di tutta la vicenda. Alla prima, lo spettacolo, prodotto dalla compagnia Il Carro dell’Orsa e dal Teatro di Roma, era ancora appena “imbastito”, da sistemare, con momenti di grande intensità che si alternavano ad altri lungi dall’essere risolti. Pagano lo scotto, e forse l’emozione, soprattutto alcuni giovanissimi interpreti del gruppo.
Ma, assistendovi, tornava alla memoria, qua e là, lo storico e bellissimo allestimento di Carlo Cecchi, fatto anni fa al Teatro Garibaldi di Palermo: non solo per una “familiarità” dei soggetti coinvolti, ma per quel raccontare amaramente una umanità sfranta, disagiata che si dimena per non soccombere, al di là di ogni tempo e di ogni riferimento alla cronaca. È una riflessione sull’assoluto morale quella che cerca la regia di Piazza, almeno a me così sembra: l’indagine è rivolta al dilemma interiore, ai nodi etici delle misure da prendere. Obiettivo difficile, certo, ma non impossibile da raggiungere per questa compagine.
A Torino, invece, Jurij Ferrini regista e interprete nel ruolo del duca, firma un allestimento più politico, a gran ritmo, incalzante e divertente. Sfoggia una visione vitale, concreta, ipercontemporanea, da bassifondi metropolitani, tutto musiche rock, sneakers o anfibioni.
Questa sua edizione incalza lo spettatore, senza lasciargli tregua, con una metateatralità sorniona – in cui gli a parte dei personaggi chiamano spesso in causa il pubblico – ma svela bene, sapientemente, le dinamiche relazionali, i temi sottesi, i tanti rimandi possibili con l’attualità (senza mai diventare banale attualizzazione, se non, forse per quelle divise da carcerato arancioni che hanno un peso e una immediatezza ancora troppo forte da sopportare).
Ferrini in scena è di bella intensità, di consapevole lucidità nell’affrontare un personaggio complesso e contorto, che sa muovere gli altri fino a svelarne la vera intimità. Bene anche l’Angelo di Matteo Ali, sicuramente meno ambiguo di quello proposto da Piazza, anzi addirittura quasi “salvato” dall’interprete: il vicario sembra sinceramente convinto del suo servire la giustizia, e quello che prova per Isabella pare piuttosto uno sbandamento passionale, che si consuma con una mezza carezza, un bacio rubato – o forse un “raptus”, come dicono peraltro i tanti femminicidi? – di cui si pentirà sinceramente. Ci è piaciuto il Lucio di Angelo Tronca, pedante e invadente, come la verace e tragica Madama di Elena Aimone. Piccole perplessità per Rebecca Rossetti: è brava, tiene bene il peso del ruolo di Isabella, ma ha la tendenza di accompagnare tutte le battute muovendo in avanti le mani (e si raccomandava già il vecchio Amleto con gli attori di Elsinore…).
Il resto del gruppo, anche qui giovanissimo, asseconda generosamente il disegno registico, con apporti non sempre uguali, spingendo anche sull’acceleratore comico da farsaccia nera. Merita comunque una menzione almeno Lorenzo Bartoli, bargello factotum dal cuore d’oro. La produzione dello Stabile di Torino si avvale della feroce e bellissima traduzione di Cesare Garboli: il combattimento che il critico ebbe con il verso shakespeariano suscita ancora entusiasmo.
Poi, vi dirò, a me piacciono questi lavori, quello di Ferrini come quello di Piazza, che pongono sul tavolo – in modo giovane, spavaldo, anche imperfetto – solide questioni etiche, morali, politiche e non solo estetiche. Sentire gli attori e le attrici consapevoli di un compito, di un ruolo sociale oltre che artistico, tenere alto il livello del linguaggio, della discussione, delle domande mi fa bene alla salute e al cervelletto. Perché il teatro, tanto teatro, è questa cosa qua.
E alla fine, al teatro Gobetti di Torino, in un irrituale saluto al pubblico, c’è anche spazio per un omaggio del “capocomico” al Bardo, per quei 400 anni che proprio non si sentono. Li porta proprio bene, quel giovanotto di William.
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