Teatro
Dubbi e domande dopo il premio InBox
È una iniziativa meritoria e meritevole il premio InBox. Un festival che è anche un premio e che fa girare gli spettacoli vincitori in tutta Italia. Anziché riconoscimenti, targhette e medaglie, InBox, progetto ideato intelligentemente da Fabrizio Trisciani e Francesco Perrone della compagnia Straligut Teatro, assicura infatti residenze per provare e repliche degli spettacoli finalisti, cosa che – in questi tempi in cui il sistema teatrale italiano sembra più bloccato che mai – è un fatto di grande importanza.
L’ampia “rete” che dà vita a InBox, nata nel 2009, è composta da una quarantina tra strutture teatrali, spazi off, istituzioni e circuiti, più o meno in tutta Italia. Ottimo, dunque.
L’altro elemento interessante del premio è che si occupa anche di “teatro ragazzi”, ovvero degli spettacoli pensati per gli spettatori giovanissimi, e che non ha l’ormai abituale e pervasiva barriera dell’“under 35”, aprendosi anzi a spettacoli e artisti non di primo pelo. Basti dire che quest’anno ci sono stati ben 450 spettacoli in gara, e da qui sono stati selezionati i 10 finalisti.
Allora tutto bene? Sì e no.
Nell’edizione vista a Siena si sono confermati gli elementi complessivamente positivi, ampliati dal sostegno strutturale di Fondazione Toscana Spettacolo, Mibact e Comune di Siena, ma non sono mancate perplessità.
La prima è quella delle location. InBox 2016 si è svolto tra il bel Teatro dei Rozzi e l’inospitale e poco funzionale spazio Auditorium “Casa dell’Ambiente”: moderno e chic ma risultato davvero poco funzionale per artisti e spettatori.
In secondo luogo, gli spettacoli (almeno quelli che ho visto io) hanno mostrato una preoccupante fragilità.
Mi è sembrato che, dalla selezione, emergessero lavori drammaturgicamente confusi e scenicamente un po’ irrisolti: spettacoli dal fiato corto, stiracchiati intorno a una idea o due. Insomma, una fragilità diffusa e condivisa, che si impantana in una autoreferenzialità manierata, da piccolo cabotaggio.
Tant’è che alla fine è risultato vincitore lo spettacolino più “carino”, accattivante, un po’ ruffianello e emotivamente ricattatorio. Sto parlando di Gianni, della pur brava Caroline Baglioni di cui tanto si sente parlare in giro, avendo già ottenuto riconoscimenti. Lei arriva sul palco portando un cumulo di scarpe, poi ne indossa due diverse (una alta, una bassa) e zoppicando zoppicando fa “l’imitazione” di quello che si scopre essere un suo zio, sofferente di problemi maniaco-depressivi, scomparso per malattia. Baglioni si premura di spiegare che ha trovato tre nastri registrati dal suddetto zio, con divagazioni esistenziali, politiche, sociale e cronachistiche anni settanta-ottanta, arricchite da musiche coeve. Evidentemente l’ha ritenute degne di essere condivise con il pubblico. Fosse stata tutta un’invenzione, il testo poteva anche risultare divertente, ma temo invece la faccenda sia autentica “archeologia familiare”. Ultimamente, in scena va di moda fare le imitazioni dei parenti: già il teatro di narrazione ci aveva assuefatto a queste storie di “uomini non straordinari”, ed è come far vedere i Super8 delle vacanze. Qui, poi, c’è un’ambizione in più, ossia di rendere emblematici simili vissuti.
Il monocorde racconto, con smaccato accento perugino, ormai definitivamente sdoganato da Filippo Timi, intervallato da sequenze fisiche simil-Bausch (con gran spostamento dei biondi capelli, ma già le scarpe ci avevano messo in allarme), sfocia nell’immancabile finale tragico con i conseguenti commossi applausi del pubblico. Biopic, insomma, che pur nella compiutezza formale, ha il peso di una piuma: però devo sbagliarmi, visto il consenso riscontrato tra operatori e spettatori.
E invece avevo riposto grandi attese in Astorri Tintinelli, stralunata coppia comica in cui lui, un gigante, fa da contraltare alla minuta e fiabesca figurina di lei. In Il sogno dell’arrostito, affondano la loro ricerca in un rumorismo postindustriale, evocano un immaginario anni Settanta (anche qui) da Classe operaia va in paradiso, e però il loro Il sogno dell’arrostito parte benissimo, diverte e coinvolge in una surreale astrazione, ma frana presto su se stesso smarrendosi in paradossi verbali da comizi al megafono, in una pletora di parole che perdono progressivamente ogni ironia. Peccato, perché Astorri Tintinelli sono bravi, stanno bene in scena, e davvero potrebbero far molto di più.
Ma, oltre ai “fondamentali” della regia, è la drammaturgia il nodo irrisolto di queste produzioni. Così è per Leviedelfool, coraggiosa e attenta compagnia di Simone Perinelli e Isabella Rotolo.
Luna Park – Do you want a cracker? è uno spaccato dal bel sapore di marginalità, di tangenziali abbandonate, di bar di periferia: protagonista un anti-eroe romantico e sbandato, sognatore e disilluso dalla vita. Non senza ironia evoca situazioni fantasiose, duelli immaginari per un biscotto e viaggi sulla luna. Perinelli si muove bene, ha presenza scenica e vocalità idonee (per quanto certe connotazioni possano risultare “macchiette”), ma gli preme dire tutto e quel tutto presto diventa troppo, in un procedere per accumulo, reiterazioni, ossessioni ridondante che appesantisce non poco e “didascalizza” inutilmente lo spettacolo. Fino alla smaccata evocazione di Don Chisciotte, di cui avevamo abbondantemente intuito, che arriva come un babà dopo il tiramisù.
Non dubito del lavoro fatto dai selezionatori per InBox 2016: proprio per questo, anzi, c’è da porsi qualche domanda. La rassegna, infatti, è specchio adeguato, e dunque preoccupante, di questi tempi faticosi. Fare teatro è sempre più difficile, e una generazione – quella dei quaranta/cinquantenni – sembra patire più che altre la stagnazione economica e progettuale dei nostri anni. La crisi, ormai, non si vive solo nel portafoglio, ma anche e soprattutto nella mancanza di prospettiva, nell’entusiasmo che svanisce, nella speranza che si affievolisce. E anche la progettualità artistica – non potrebbe essere altrimenti – ne risente: dove vanno? A chi vogliono parlare questi artisti? Che pubblico cercano?
C’è come una contrazione, una chiusura, una confusione emotiva, che porta a spettacoli trattenuti, timidi o all’opposto “spersi” nei mille rivoli di possibilità evanescenti. Una lotta per il penultimo posto che – come diceva quel poeta che è Roberto Latini – è sempre molto più dura di quella per il primo posto. È una scusante? Forse no. Si potrebbe reagire, rilanciare, rivoltare. Più facile a dirsi che a farsi, mentre intorno crolla tutto.
Ma certo non sapere dove si va a parare, costringe a tenersi ancorati a quelle due o tre ideuzze o immaginette che non bastano più a raccontare se stessi o il mondo.
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