Teatro
Dramma industriale: La Pira secondo Giovanni Ortoleva e Riccardo Favaro
In occasione della LXXVII Festa del Teatro di San Miniato, dal 22 al 26 luglio va in scena in prima nazionale il nuovo spettacolo firmato da Giovanni Ortoleva per la drammaturgia di Riccardo Favaro. Prodotto da Elsinor Centro di Produzione Teatrale con Fondazione Teatro della Toscana-Teatro Nazionale e Dramma Popolare di San Miniato, Dramma industriale (Firenze, 1953) è incentrato sulla figura di Giorgio La Pira. Politico di spicco della Democrazia Cristiana, eletto per tre volte come sindaco di Firenze (1951-56, 1956-57, 1960-1964) La Pira viene ricordato soprattutto per le sue politiche di giustizia sociale, per il suo alto senso morale e per le sue battaglie a fianco dei più deboli. Nell’autunno 1953 più di duemila operai, tutti assunti presso lo stabilimento fiorentino del Pignone, rischiano il licenziamento per la chiusura dello fabbrica. Il sindaco della città prende pubblicamente le parti degli operai, asserragliati nei locali dell’officina. Nelle drammatiche giornate di quell’occupazione, tra scioperi generali e rapporti con industriali, prefetti e ministri, La Pira compatta un fronte politico e civile che punta a salvare prima di ogni altra cosa i posti di lavoro. Sarà l’ENI di Enrico Mattei a tendere la mano al sindaco, rilevando lo stabilimento. Traendo spunto da questa vicenda, senza riproporre una scansione documentaristica o cronachistica dei fatti, lo spettacolo ritrae i turbamenti privati del Professor La Pira, diviso tra l’impegno politico e spirituale per la vertenza della Fabbrica e l’eco delle accuse di socialismo che ambienti democristiani e liberali gli recapitano. Attraverso una sequenza di interviste, dialoghi, sogni e telefonate con il Presidente Mattei, viene attraversata la simbolica crisi di duemila operai per culminare con l’amaro confronto tra due personalità decisive per la rinascita etica e politica del Paese. Un’opera fra passato e presente, testimonianza e spinta all’impegno, alla presa di coscienza e al recupero del valore del lavoro di cui abbiamo parlato con il regista Giovanni Oroleva.
Questo lavoro porta lo spettatore a riflettere sul senso del tempo, in rapporto ai cambiamenti che ci sono (o non ci sono stati) rispetto ai diritti dei lavoratori, al mercato del lavoro, alle dinamiche sociali della fabbrica. Oggi come ieri i fatti di cronaca raccontano una storia in cui il lavoratore risulta essere l’anello debole della catena, per quanto di fatto l’elemento che “manda avanti” la fabbrica, non è stato straniante, lavorando sui materiali per la realizzazione della drammaturgia vedere tante analogie e, purtroppo, differenze in negativo rispetto al nostro presente?
Sicuramente è stato straniante capire come 70 anni dopo i fatti qui narrati, a pochissima distanza dalla fabbrica del Pignone, ci troviamo nella stessa situazione, penso a Campi Bisenzio, occupata in questo momento. È come se si ricomponesse un chiasmo, in termini di dinamiche del lavoro, ma anche politiche. Lo spettacolo parla della fabbrica, delle lotte per i diritti dei lavoratori, ma anche della fine del fascismo e oggi abbiamo ancora lotte e un governo di estrema destra che non rinnega discendenze “almirantiane” e repubblichine. Sul finale una battuta dice che tutto torna e ha evidentemente un doppio significato: risuona nella mente dello spettatore e gli impone una domanda sulla fine dell’eredità che La Pira ci ha lasciato.
E la risposta?
La risposta è un’ulteriore domanda: chi ha raccolto questa eredità? La risposta, forse, è desolante. L’importante però è ricordare. Il viaggio che abbiamo fatto con Riccardo Favaro ci ha portato ad analizzare un personaggio anagraficamente molto distante da noi. Forse, senza l’impegno a una riflessione, avremmo sorvolato su questa figura, per una sua non spiccata teatralità, invece…
Tutto ciò che circonda la vicenda del Pignone racconta un’Italia che non è solo quella del 1953, ma che ha a che fare con un’indole profonda, con un’identità di sostanza della nazione stessa. Nella vicenda di allora rivediamo, in modo vivido, le cose di oggi.
Un mondo, quello di allora, però per tanti aspetti profondamente diverso…
Sì, abbiamo deciso di aprire lo spettacolo con uno sguardo sul passato, verso quel mondo contadino che ancora esisteva al tempo e che chiude il Novecento, ma di terminarlo con una riflessione sul futuro. La Pira è, in un certo senso, un ponte fra antico e moderno. Il nostro sguardo si è mosso sull’ultimo lungo volo di Mattei, su quello che è seguito e seguirà, su tutte le promesse politiche degli anni Cinquanta, infrante in quel volo e poi tradite.
Oggi la politica è fortemente mediatica, ma non sembra esserlo il dibattito sul lavoro, a differenza di allora…
Il tema è sempre l’informazione. Nel 1953 la vicenda della smobilitazione di 2000 operai di una fabbrica teneva la nazione con il fiato sospeso, riempiva le prime pagine e gli occhi dell’opinione pubblica erano puntati sugli eventi. Oggi il nostro paese è scosso solo dalla cronaca nera. Il lavoro è stato profondamente svalutato come argomento di cui discutere. Noi per primi siamo confusi sui compromessi più o meno accettabili per lavorare, abbiamo perso un’orbita valoriale di riferimento. Ieri non c’era lo statuto dei lavoratori e si lottava, oggi c’è ma troppo spesso viene disatteso e aggirato. Lo testimoniano le tante morti sul lavoro, i numeri del lavoro in nero. Siamo di fronte a una rassegnata accettazione, abbiamo perso il senso dell’importanza del lavoro.
Forse anche il senso di una collettività? Non arrivo a dire coscienza di classe…
Avremmo bisogno di un ritorno al collettivo rispetto all’individualizzazione fortissima in cui viviamo. Accadrà? Mi piace sperarlo, ma credo sia solo una speranza al momento.
Il teatro però è un rito collettivo, ha una fruizione diametralmente opposta a quella individuale, implica un senso di comunità…
Il teatro è davvero il rito collettivo della storia recente. Per questo abbiamo accolto con gioia l’invito e la sfida del Dramma Popolare, che chiede sempre, nelle sue chiamate, di trovare spazio per la riflessione, sul presente, anche quando si parte dal passato. Il teatro deve aprire alla complessità, alle prospettive storiche, deve permettere di pensare, di far lavorare lo spettatore su ciò che vede. Non amo però il teatro politico, inteso come teatro che pretende, attraverso la sola presenza allo spettacolo, di assolvere, dal punto di vista dello spettatore, così come dell’attore o del regista, il bisogno di impegno politico. Lo spettatore in questi casi si autoassolve e va a casa sollevato. Non va bene: il teatro deve far lavorare lo spettatore, farlo ragionare, ma la politica si fa in piazza. Il teatro è spettacolo, ma non assolve alla funzione di azione sul mondo, deve innescare la volontà di cambiarlo, ma non può cambiarlo.
Rispetto al necessario cambiamento di prospettiva sul lavoro di oggi, avete avviato un confronto anche con chi vive la crisi del lavoro nella fase di studio per lo spettacolo?
Il confronto con le crisi lavorative è per noi, generazionalmente, quotidiano. I nostri coetanei mettono in continua discussone scelte di vita, cosa accettare o meno in termini di compromesso per poter vivere e lavorare. Non abbiamo voluto portare sul campo l’indagine, non siamo andati alle occupazioni per portarle poi in scena. Il nostro è uno sguardo sulla storia del paese, che tiene sicuramente conto dei fatti di oggi, di cui però non si vuole appropriare. Anche per un certo pudore rispetto alla nostra poca esperienza di questo mondo.
Alla fine esiste, in questo quadro, una possibilità di redenzione?
Direi che è importante conoscere la figura di La Pira, senza sacralizzarla, perché sacralizzare una figura politica ti porta, inevitabilmente, a pensare che non potranno essercene di uguali e invece devono essercene. Lui in scena è uomo di azione e per fare politica occorre studiare, faticare, sporcarsi le mani. La politica si fa, non si chiacchiera. Il nostro mestiere è mettere in scena le cose, dar loro vita e raccontarle. Poi c’è il fare: noi vogliamo essere un fuoco che accende qualcosa che porti al cambiamento.
Un’ultima domanda. Da un punto di vista scenico come avete lavorato?
Abbiamo lavorato a partire da un testo di impianto realistico, per poi portarlo a muoversi fra realtà e sogno. All’inizio appare come un testo novecentesco, ma finisce poi con una complessità di piani lynchana, con una confusione fra reale e proiezione della mente.
Abbiamo lavorato amplificando il potenziale visivo che il testo conteneva, ci sono molte cose che traggono dalla visività del testo forza, un testo che si muove su mondi diversi. Una parte importante è la componente del teatro di figura, che è entrato in modo forte e inaspettato in questa produzione. Per questo alcuni personaggi storici appaiono come marionette. Non aggiungo altro, starà allo spettatore scoprirlo.
Ph. Credits Simone Borghini, Michela Piccinini, Danilo Puccioni
DRAMMA INDUSTRIALE (Firenze, 1953) di Riccardo Favaro regia Giovanni Ortoleva
con Stefano Braschi, Marco Cacciola,Christian La Rosa, Stefania Medri, Edoardo Sorgente
assistente alla regia Alice Sinigaglia sceneFederico Biancalani assistente alle scene Martina Cattaneo costumi Graziella Pepe musiche Pietro Guarracino direzione tecnica Rossano Siragusano produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Teatro della Toscana-Teatro Nazionale, Fondazione Istituto Dramma Popolare di San Miniato
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