Teatro
Dove va il teatro sociale (d’arte)?
Dove sta andando il teatro sociale?
Già la definizione sembra oggetto di domande e discussioni. Da quella classica, fondamentale e consolidata, di “Teatro d’interazione sociale” a “Teatro sociale d’arte” passa un mondo che – non solo per gli addetti ai lavori – è foriero di riflessioni e confronti.
Se ne è discusso recentemente, a Brescia, in occasione del festival Metamorfosi: manifestazione sostenuta, con impegno e lungimiranza dagli Assessorati alla Cultura e al Sociale della città lombarda, Metamorfosi è organizzato dalla compagnia Teatro19, gruppo tutto al femminile, che – accanto a spettacoli, parate e laboratori – ha voluto anche dare spazio a un seminario di due giorni dedicato proprio alla riflessione sulle qualità e le tendenze del teatro sociale italiano. Brescia vanta una grande tradizione nel settore: città da sempre attenta alle questioni del disagio e della marginalità, anche grazie alla presenza di una vivacissima sede dell’Università Cattolica, ha trovato nel teatro (e nei suoi teatri) punti di riferimento imprescindibili per quel che concerne l’incontro, l’interazione, il confronto, ossia la costruzione di comunità.
E interessanti erano gli spettacoli visti in programma. A partire dall’intenso (ma anche lieve e divertente) lavoro fatto da Teatro19, La casa nella testa, frutto di un lungo laboratorio che sta dando vita a una vera e propria compagnia, in cui spiccano due gemelli – kantoriani quanto mai – protagonisti di un racconto sospeso tra biografismo e disagio mentale. Scritto e diretto da Francesca Mainetti, il lavoro ha momenti di grande e toccante poeticità.
Di assoluto rilievo, poi, anche il percorso che la stessa Mainetti fa con il regista e attore Alessandro Garzella, di cui abbiamo già parlato in passato. Il loro spettacolo, Canto d’amore alla follia, è uno struggente e lirico affondo nelle dinamiche uomo-donna, segnate da una diversità evidente che si fa segno e stigma, follia e tenerezza. Dimostrazione, entrambi i lavori, di quanto nel novero del teatro sociale si stiano sviluppando poetiche ed estetiche di rilievo.
È una eresia pensare il teatro sociale in termini di “spettacolo”?
Forse sì, almeno per quanti sostengono – non senza ragione – la fondamentale natura socializzante, in cui è, per dirla grossolanamente, più importante il “percorso” del “prodotto”. Eppure, come si è accennato, le possibilità di un “nuovo” teatro sociale d’arte sono concrete e ben visibili: laddove anche i “prodotti” diventano spettacolo di alta intensità dal punto di vista della teatralità e dell’innovazione dei linguaggi scenici.
Il seminario, dunque, è stato articolato e appassionante, ricco di interventi. Nelle due giornate, introdotte dal vicesindaco e assessore alla cultura Laura Castelletti e dall’assessore alle politiche sociali Felice Scalvini (ce ne fossero ovunque di assessori così!), hanno preso la parola, oltre agli artisti già citati, lo studioso Claudio Bernardi – tra i padri delle teorie sul teatro sociale in Italia –, il critico Antonio Audino, l’archeologo Emmanuele Curti, il regista e autore Antonio Viganò, lo storico Roberto Cuppone, la regista Beatrice Faedi, l’organizzatrice Mimma Gallina, il regista Stefano Tè, il direttore del CTB Gian Mario Bandera e altri.
A testimonianza della vivacità del dibattito in corso – a Brescia e non solo – riporto qui di seguito l’intervento di Garzella e Viganò (punto di riferimento imprescindibili di questa teatralità, che ha presentato a Brescia il suo bellissimo Personnages) in cui si prefigura la possibilità di un vero e proprio festival nazionale di teatro sociale d’arte. Prospettiva che, per quel che mi riguarda, mi sembra molto affascinante, di cui si riparlerà presto – per cominciare a Modena al Festival Trasparenze.
È un “manifesto” lungo e complesso, ma vale sicuramente leggerlo nella sua integrità per rilanciare, laddove ce ne fosse bisogno, la discussione sul piano nazionale.
L’OMBRA CHE RIDE
appunti per un manifesto sulle diversità del teatro
L’ombra che ride c’apparve in scena tanti anni fa. All’inizio pareva una persecuzione. Indecifrabile e anche un po’ maldestra. Che c’entra l’handicap col teatro? Che ci sta a fare un matto accanto a un attore vero? Noi, senza dare risposte, subito rifiutammo la prospettiva caritatevole, quella rassicurante e altruista, avvalorata da gran parte dei compagni di cammino che si sperticavano a dire: “Il teatro, comunque sia, fa bene! Il linguaggio del corpo si può usare per riabilitare, integrare, includere, inculcare qualcosa in testa a qualcuno che, poverino, capisce poco, si muove male, soffre di qualche prigionia e non ha nessuna abilità tranne la sfiga (o il talento?) di vivere in un’altra prospettiva”.
La parte sana della malattia (quando il teatro riesce a farla esprimere) colpisce: fora lo schermo rassicurante dell’innocuità, è una sostanza esplosiva che, in scena, proietta le diversità che sono in tutti noi, amplificandole. E anche si presta alle strumentalizzazioni più banali o volgari. Ciascuno, ovviamente, a quel riflesso di sé, reagisce in base alla propria sensibilità e cultura.
C’è un aspetto metafisico nella diversità, specie quando rompe i confini della sofferenza e pretende di esprimere benessere, bellezza, felicità, intesi come percorsi di trasformazione della conoscenza collettiva.
La sincerità del sintomo, in questo processo, talvolta è insopportabile. Specie per lo spettatore che si ritiene sano.
Il sintomo esprime la parte più spietata del nostro essere e, sconosciuto a noi stessi, rappresenta tuttavia un aspetto inconsapevole e sostanziale della nostra esistenza. Ci sono spettatori, critici di teatro, operatori, artisti che non reggono il confronto se vengono messi di fronte a certi comportamenti che possono riflettere parti indicibili o inaccettabili di sé. Oppure piangono, o si esaltano, spesso impropriamente. Probabilmente queste reazioni di fastidio o commozione derivano dalla rappresentazione del mostruoso che vive in ciascuno di noi.
Ma come mai, ci siamo chiesti, le disabilità, in teatro, scatenano adesioni o fastidi così sproporzionati, ipocrisie sconsiderate e talvolta perfino forme di sadismo?
Pian piano ha preso luce in noi l’ipotesi che, forse, la visione delle diversità in scena – che poi vuol dire espressione delle infinite sproporzioni, deformità, asimmetrie fisiche, mentali e comportamentali presenti in questo mondo – per un verso suscita gli stereotipi del pietismo e della meraviglia e per l’altro evoca i segreti e i misteri originari che il teatro da sempre custodisce in sè: in quell’atto, semplice e crudo, c’è comunque sia la pretesa di un crogiolo magico, sia la celebrazione di un rito laico in cui i consueti santuari di dolenza si ribaltano, rovesciando i canoni di intelligenza e bellezza sanciti dal vivere sociale. Alcuni cittadini, spettatori o artisti, di fronte a quell’atto, scoprono di avere bisogno di quell’ombra, scoprono che il teatro ha bisogno di quell’ombra, per rinnovarsi e interrogarsi sul suo agire e sulla sua funzione sociale.
Negli anni novanta il teatro coi matti, dopo alcune esperienze mitiche, ai più parve un piccolo sotto mercato, un buon rifugio, una scappatoia tutto sommato comoda per sbarcare un pezzettino di lunario, o ricavarsi un porto franco, candidandosi al medagliere d’assistito. Si contano sulle dita di una mano i nomi che, in vari modi, avevano già allora messo in luce qualcosa di profondamente diverso da tutto ciò. Sono quelli che nelle carceri, nei manicomi, nelle periferie più estreme dell’emarginazione sociale hanno, più o meno segretamente, cominciato a capire che l’alterità, in sé, non ha alcun bisogno di teatro. Hanno compreso che è il teatro ad avere bisogno della sua differenza, spesso dimenticata nei botteghini, nei minimalismi culturali o negli artifici estetizzanti della post modernità. Questo ribaltamento Antonio ed io l’abbiamo appreso sulla pelle, con sensibilità, storie di vita e poetiche molto diverse tra noi ma con la stessa ostinazione, con uguale perseveranza e immotivata follia. L’ombra che ride, da ossessione, è diventata per noi un’amica inseparabile che ha trasformato la nostra visione di teatranti e, in gran parte, la nostra vita.
Nel dif/forme c’è un balzo misterioso, uno scarto magico, una deformazione estetica davvero inseparabile dall’etica civile. E’ una scintilla che immediatamente pone il teatro fuori dalle convenzioni della borghesia. C’è una fessura, un paradosso tragico e farsesco che mette il teatro nella condizione d’essere arte o merda. E spesso è merda, magari imbellettata da un’apparente utilità sociale. Se in scena appare un’anomalia reale le potenzialità poetiche e i rischi si moltiplicano. Il ricalco o l’espulsione dell’ovvietà televisiva si fa evidente: nasce un atto simbolico che di per sé sovverte o subisce le logiche usuali dello svago. E’ come se il teatro si riappropriasse della sua unicità, trasformandosi in quel luogo mitico dove mostruosità e meraviglie s’accoppiano, attraverso opere che divengono veri e propri atti politici di eversione poetica: lontanissimi da qualsiasi celebrazione del diverso o delle diversità, noi cerchiamo di svelare, non confermare, vogliamo rompere il paradigma, mostrare un altro possibile. Trasfigurare il soggetto per passare da una sola “condizione” a una capacità di “comunicazione” risonante. Che ci fa un attore professionista accanto a un matto se non proporre la necessità di un reciproco contagio tra le tecniche e le ossessioni della vita? Da questa straordinaria potenzialità – e dai mille fallimenti che ne derivano per tutti noi – nasce l’indignazione radicale verso lo sfruttamento falsamente pietistico del dolore che a volte traspare in qualche scena, magari scimmiottando l’ipocrisia televisiva, il voyerismo culturale o il ricatto di una falsa pietà.
Insomma: se ci fosse uno statuto del teatro sociale d’arte dovrebbe essere scritto un primo articolo in cui si vieta la spettacolarizzazione della sfiga.
Antonio ed io ci impuntiamo sull’indignazione perché molte volte abbiamo visto in teatro cronicizzare una malattia, magari col contrabbando terapeutico o pedagogico di qualche artista in paranoia. La presunzione e la scorrettezza, in ogni percorso artistico, sono dietro l’angolo. Sono rischi che corriamo tutti noi, quotidianamente, a partire ovviamente da chi parla. Gli unici deterrenti oggettivi sono le regole, il contesto e il motivo: quale motivazione spinge l’artista verso il sociale? quali sono i principi che condivide con la sua committenza? quali tempi e condizioni di lavoro caratterizzano il progetto? quale apertura al mondo si persegue: la sghettizzazione dalla clausura comunitaria o la difesa di una separatezza? Si condivide o no con la committenza la necessità di favorire processi di autoselezione dei partecipanti al percorso creativo? E’ chiara la finalizzazione artistica della ricerca? In che modo il progetto coinvolge il territorio? C’è un reale bisogno di confrontarsi con gli spettatori, portando a pubblici anche generalisti le forme e le domande delle nostre opere? Non vogliamo certo proporre metodologie o scuole ma vogliamo affermare con forza la necessità di condividere regole capaci di garantire potenziali di qualità avanzata: la nostra è una pratica esclusivamente artistica, solo ed esclusivamente una necessità poetica, che vuole riscattare il teatro e non il sociale. Non siamo il teatro dei diversi: apparteniamo ad una storia importante, quella dei teatri della diversità. Non cerchiamo di omologare tutto e tutti per rendere tutti uguali: vogliamo moltiplicare le differenze non addizionarle. La borghesia ha identificato il teatro come mestiere ed esibizione, sottraendo il senso del sacro, del magico e della ritualità collettiva che il teatro sociale d’arte pratica in sé.
Ci sono ancora due riflessioni da fare e una proposta.
La prima riflessione è sulla regia: in questo contesto la regia costituisce in maniera abbastanza oggettiva il perno dell’atto teatrale. Nel teatro sociale d’arte la funzione del regista ci pare si ponga anche in relazione ad un piano culturale ormai abbandonato dai più. La regia, infatti, quando prevede la presenza di un’ombra che le ride accanto, non determina soltanto le forme attraverso le quali l’opera comunica o non comunica uno sguardo poetico e un’idea di mondo: il regista di un teatro sociale d’arte si fa concretamente carico dei cerchi concentrici che questo processo riverbera, oltre che a livello artistico, anche sul piano politico, sociale e culturale. Essi si proiettano all’interno della compagnia che produce, della comunità che organizza e perfino della collettività territoriale che ne fruisce. Quel regista, lo voglia o no, si fa carico di un compito brechtiano: straniare, a modo suo, anche nella maniera più appassionata, i misteri delle forme, misurare delicatezza e crudeltà, riappropriandosi del gesto antico di celare o svelare un dramma al cospetto di una collettività sociale di spettatori. Mi pare che il regista di teatro sociale d’arte, in maniera più o meno visionaria, si ponga giocoforza nella prospettiva paradossale ma concreta di voler/dover ricomporre una società frantumata, ponendo al centro della scena l’attore, come atto sacrificale del dramma. In questo contesto la funzione del regista si pone in una prospettiva così antica da rischiare di pagarne tutte le conseguenze: esso è una sorta di “medico”, non nel senso sanitario o sciamanico, ma in quello purtroppo obsoleto di colui che si prende cura politica, sociale e culturale della collettività in cui vive, cercando di restituire un’opera d’utopia concreta, un atto artistico che prefiguri un mondo più sano rispetto a quello che ha trovato.
La riflessione che ne consegue è sugli spettatori. Una funzionaria dello Stato anni fa mi disse “E che vanno a fare gli spettatori del teatro in un carcere o in un manicomio o in una qualunque comunità?” Che ci vanno a fare? Quella domanda ne sottaceva un’altra più spietata: che ci va a fare il teatro sociale nei teatri veri? Accettiamo la frammentazione della società così com’è, produciamo dei bei format inclusivi, uniformiamo tutto alla merce e tanti saluti all’unicità del teatro. Però quella funzionaria dello Stato non teneva conto, secondo noi, che le necessità dell’innovazione implicano anche un pensiero sul pubblico, sia per quanto concerne il pubblico del teatro contemporaneo che per gli abbonati alle stagioni tradizionali. La realtà della natura è stupefacente, laicamente magica: è un bazar di differenze sterminate. La vertigine ci lascia spesso così sbalorditi da non credere ai segni di bellezza che spesso ci riserva il teatro. Abbiamo uno sguardo limitato da circuiti neuronali uniformati alla spettacolarizzazione della noia. Ma in realtà noi siamo dei che, purtroppo, scontano le scomodità politiche e sociali di una condizione dell’esistenza che relega tutto all’indifferenza o alla magnificenza del consumo. Invece il pubblico ha bisogno di visioni, coincidenze, innamoramenti, premonizioni: i pubblici del teatro hanno bisogno di riempire la propria vita di invisibilità che si manifestano, di stupori, sorprese, capovolgimenti di una realtà così stretta e ripetitiva da diventare sempre più insopportabile. Abbiamo bisogno di difformità e di luoghi laicamente sacri. Il teatro sociale d’arte sta maturando, nelle esperienze più avanzate che si sono consolidate nel nostro Paese, idee di pubblico completamente nuove, rispetto alle consuete tipologie di spettatori che seguono il teatro contemporaneo. Bisognerebbe analizzare a fondo le analogie e le differenze che, nel teatro sociale, caratterizzano le visioni di spettatori più o meno partecipi e spettatori distanti dalle tematiche rappresentate in scena. Il ponte che talvolta sembra unire (o separare) i teatri dalle città trova, nelle esperienze di teatro sociale, forme di radicamento molto marcate: gruppi d’appartenenza, strutture comunitarie, nuclei d’interesse che si aggregano attorno a processi di formazione artistica più o meno strutturati. Queste aggregazioni ampliano la platea degli spettatori di teatro, coinvolgendo ambiti sociali normalmente esclusi dalla fruizione del teatro contemporaneo. Quando questo situazionismo teatrale è portatore di segni artistici qualitativamente significativi si rompono i confini spesso emarginanti dell’handicap, del carcere, del centro d’accoglienza e l’esperienza del teatro torna ad aggregare pubblici più indifferenziati attorno ad un nucleo sociale capace di esprimere desideri e bisogni universali. Si realizza in questi casi una forma di teatro politico contemporaneo, capace di esprimere una propria idea di mondo. La comunità, l’handicap, l’alterità di cui è potatore, da barriera separante e pericolosa, diviene metafora evocativa di simbologie e valori che ricompongono strati sociali e fasce di pubblico nuove.
Infine una proposta: noi pensiamo che questa ricchezza non debba andare dispersa. Né possa restare sotterranea. Noi vogliamo proporre al Ministro un progetto speciale che incroci i ministeri della cultura e del sociale. Vorremmo avere gli strumenti per organizzare un vero Festival Internazionale sulla diversità del teatro. Vorremmo proporre progetti di formazione professionale e lavoro per persone svantaggiate, vorremmo chiedere un tavolo di progettazione permanente tra gli artisti e le istituzioni dove discutere sulle forme della produzione e della distribuzione.
Non vogliamo sindacalizzare il teatro dell’handicap ma pretendiamo che le istituzioni, i festival, i teatri nazionali, la critica, la smettano di ignorare un fenomeno che loro stessi hanno chiamato sociale per poi quasi estrometterlo dal sistema. La semi clandestinità della nostra ricerca ci ha insegnato che per molti versi noi stiamo abitando luoghi in cui si rinnovano i mestieri del teatro, gli spazi e i pubblici della scena contemporanea, le forme organizzative, le modalità e il senso del produrre drammaturgia nel contesto d’oggi. Nella situazione in cui versa l’intero sistema del teatro noi abbiamo la presunzione di essere detentori di qualche qualità. Sicuramente conosciamo il mutamento negli aspetti teorici e concreti. Lo pratichiamo quotidianamente, combattendo l’ingiustizia della marginalizzazione assieme a pubblici ed artisti che condividono la nostra stessa necessità: non dimenticare mai che il teatro è una moltitudine di ombre sbeffeggianti.
Al tavolo ministeriale che proponiamo vorremmo condividere una prospettiva di politica culturale piena di domande antiche e di atti contemporanei, di contenuti e di forme che siano al tempo stesso motivo di ricchezza e di conflitto. Sicuri che il teatro ha la capacità e la forza di porre al centro del suo rinnovamento non tanto il mito degli algoritmi quanto la cultura delle diversità. Tematica principale di questo nuovo millennio.
Alessandro Garzella e Antonio Viganò
giugno 2017
Festival Metamorfosi – Brescia
(La foto di copertina è di Patrizia Chiatti per Associazione Anticorpi)
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