Teatro
Dopo lo streaming: il teatro come spazio pubblico
Benvenuti nel deserto del reale. Mai titolo di Slavoj Zizek fu più profetico.
Ci siamo nel deserto.
Come in ogni deserto, sotto l’apparente nulla, formicola un brulichio di vita. Sono le tante iniziative che passano attraverso la rete, in streaming, che danno una parvenza di esistenza e resistenza in vita. Parlo di teatro e di danza, ovviamente: archivi fortunatamente aperti alla consultazione, vecchi spettacoli di repertorio, letture, interpretazioni, poesie. Dirette e differite, parole e coreografie.
C’è chi trova, e forse giustamente, molti motivi di interesse in queste proposte. C’è di tutto sul web: una miriade di belle proposte. Ma che hanno – almeno per me – il sapore di reperti, di schegge di un passato impazzito che stenta a trovare il proprio presente ed è lontanissimo dal proprio futuro. Non riesco a vederli, quegli spettacoli formato schermo; non mi sintonizzo, non ascolto. Sono riluttante, faccio difficoltà. Sono altra cosa: documenti, testimonianze (e in questo senso anche io uso i video quando, ad esempio, faccio lezione), sono anche generose esternazioni del Sé artistico. Ma vissuti così, come scintillante continuazione “nonostante tutto”, mi appaiono manifestazioni di ostinata volontà, di accanimento creativo a senso unico, messo al pari delle lezioni di yoga o di tango, delle ricette o dei tutorial per giocare a carte, in quel calderone, in quell’enorme centro commerciale che è il web. Ora, con tutto il rispetto e l’ammirazione per chi si dà da fare quotidianamente, continuo a domandarmi se sia necessario, urgente, tanto presenzialismo e indispensabile tanta produzione di contenuti di matrice teatrale per la rete.
Anche in queste proposte avverto un’ansia da prestazione, un presentismo, un senso d’obbligo morale, un dilagante e pregiudiziale entusiasmo. E di correlativa colpevolizzazione di chi – come me semplice utente, o anche come tanti artisti – non si sente di mettersi alla pari, di entrare nel gioco della virtualità.
Perché questo è il nodo principale, su cui vorrei insistere. Abbiamo perso lo spazio pubblico. Abbiamo svuotato le piazze.
Siamo intimoriti, spaventati, di camminare per strada: temiamo il contagio e temiamo – forse di più, almeno chi vi scrive che ha un problema con “l’autorità costituita”, come diceva Woody Allen – il controllo di polizia, le multe, i richiami, addirittura l’arresto (che poi come si fa a prevedere il carcere, vista la situazione delle carceri italiane in questa fase, me lo dovete spiegare).
A colpi di suadenti ma fermi decreti, ci siamo assoggettati a un sistema di vita – necessario, per carità! E lo rispettiamo scrupolosamente per il bene comune, sia chiaro – che ci sta abituando a fare a meno della condivisione fisica, che ha tolto di mezzo, con un colpo di spugna, il senso della comunità proprio inneggiando alla comunità. Tutti a casa da soli per stare insieme. Patriottismo spesso da balcone, orgoglio e inno italiano nella mortificazione generale, nel momento in cui non possiamo far altro che accettare la privazione di diritti, in cui acconsentiamo a essere “tracciati”, “monitoriati”, controllati in più e più modi. Il corpo rimane, ma solo come corpo malato o contagioso, pericoloso comunque. E mai assieme a un altro.
Così come abdichiamo all’insegnamento, rendendolo virtuale: nelle scuole e nelle università è sparita l’aula. Al di là degli evidenti problemi tecnici che sono subito discriminante sociale ed economica (chi ha il computer e chi no, chi ha la connessione e chi no), anche in questo caso, come scriveva Tomaso Montanari sul Fatto, dimentichiamo che “la scuola e l’università sono comunità. E hanno senso solo se lo rimangono, e non si riducono a somme di solitudini. La loro funzione non è rovesciare contenuti nella testa di uno studente (magari usando lo schermo del tablet come un imbuto), non è preparare ad una professione né rilasciare un titolo né valutare gli studenti: ma è quella di insegnare il pensiero critico» (Montanari, Il Fatto del 23 marzo u.s.). Invece, già temo quanti diranno: beh, avete visto, si può fare, continuiamo così.
Non fosse altro per età, abbiamo vissuto il passaggio dal giornalismo cartaceo a quello online. Ne abbiamo anche colto opportunità e novità. Così come ci siamo adattati a vedere il “grande” cinema sul “piccolo” schermo (con tanto di interruzioni pubblicitarie). Eppure non mi sento di applicare lo ragionamento al teatro. Forse la faccenda è più sottile. Stiamo cominciando a realizzare, insomma, che la chiusura dei teatri è un problema enorme. Simbolico oltre che economico.
Intanto per l’occupazione del settore, che faticherà molto a ritrovare un assetto “normale”, se non si dà subito strumenti adeguati. Al momento, al Mibact, si parla di un contributo di 130milioni di euro. Una briciola rispetto ai danni che già si avvertono e che ancora più si riverbereranno nelle prossime stagioni. Quella del teatro è un’arte impalpabile, inafferrabile, eppure verissima, concreta, carnale, fisica. Scompare appena si chiude il sipario, ma è impregnata di sudore, e di sangue. In questi mesi è svanito un mondo: progetti, prove, allestimenti, tournée, pubblico. La chiusura ha fermato un mondo. Come in altri settori, certo: ma proprio per questo, anche il settore spettacolo dal vivo, come altri settori, necessita di profondi e strutturali sostegni.
Richiede inoltre una prospettiva e un progetto per il futuro (ma il futuro inizia domani, è già iniziato!). E non mi sembra, nel chiuso della mia stanza, di avvertire tanta progettualità. Arrivano lettere ufficiali delle associazioni di categoria, richieste dei singoli, prese di posizione. Basteranno?
Non possiamo crogiolarci in questi passatempi virtuali – nessuno sono certo lo fa. Ma il rischio è che questa apparente vivacità, nel deserto del reale, faccia scambiare un miraggio per una realtà. Il teatro non è in streaming. Il teatro è una agorà, una piazza, un vivere assieme. È il luogo di democrazia discorsiva che sembra tanto più necessario nel momento in cui la democrazia stessa è minata nelle sue fondamentali libertà per una indiscutibile e incontrovertibile emergenza. Che non sappiamo, però, quanto durerà.
C’è un nuovo sito che sta raccogliendo testimonianze – alcune delle quali piuttosto interessanti e originali, da Wu Ming, a Nadia Fusini all’articolo di Montanari che ho citato – che possono servire da motore, da slancio anche per un pensiero futuro. Si chiama Corpiepolitica.it: non su tutto e con tutti siamo d’accordo, anzi, ma vi si pone radicalmente la questione della sparizione dello spazio pubblico. A che vita torneremo? Si chiedono su quelle pagine.
Forse non basta, e questo vale anche per il teatro, restaurare il mondo come era.
Mentre arriva la notizia della sospensione, per la prima volta, del Festival dei Due Mondi di Spoleto, a fronte delle tante proposte di intrattenimento, alte e basse, c’è anche chi sta lavorando concretamente non solo per risolvere l’emergenza di oggi – la cassa integrazione, i calendari, le tante partite iva prive di qualsiasi supporto, tra cui chi vi scrive – ma anche per buttare un occhio a dopodomani.
Per fare un solo esempio, è appena circolato un video del piccolo e vivace Teatro Argot di Roma – una delle fucine di quel festival Dominio Pubblico che si è sempre occupato di giovani – che sta provando a immaginare il “teatro di domani”. Dopo la sospensione definitiva della programmazione e della stagione, realtà condivisa da tante strutture, grandi e piccole, con conseguente cascata di problemi, cosa si può proporre per un futuro possibile? Quando si sarà esaurito l’hastag #iorestoacasa dove andremo? Quanto durerà, oltre la necessaria emergenza, la fantomatica “distanza sociale”?
Siamo tutti convinti e fermi nel combattere il virus, ma il teatro è assembramento. È un bene pubblico fatto di donne e uomini che si incontrano. Proprio come la piazza.
(Nell’immagine di copertina: il Teatro di Dioniso, ad Atene)
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