Teatro

Dopo che si fa? Quale teatro passato il virus?

18 Marzo 2020

Il grande privilegio di questo “non-mestiere” di critico è quello, banalmente, di frequentare i teatri. O meglio: di incontrare, conoscere, frequentare le persone che fanno teatro.

Ho scritto il mio primo “articolo” a 21 anni, nel 1988. E da allora ho avuto il piacere di aver a che fare con registi e registe, attrici e attori, tecnici, organizzatori e organizzatrici, autori, drammaturghi, scrittori e scrittrici, ma anche ministri, sottosegretari, ambasciatori, assessori di vario ordine e grado, e poi millantatori e cialtroni, arrivisti e opportunisti, genii defilati e astri nascenti, fenomeni di moda e ostinati combattenti.

Insomma: ho incontrato gente, i teatranti, gli abitatori di quel microcosmo bellissimo che è il teatro.

Adesso, nella quotidianità che tutti viviamo, questi incontri sono banditi.

Certo, ci sono i palliativi dello streaming e dell’online, ma il teatro – il viaggio, il foyer, il caffè prima dello spettacolo, lo spettacolo, il pubblico, la cena dopo, le notti a camminare e commentare, gli articoli – è come sospeso, messo in quarantena anche lui. Paradossalmente, a Roma, l’unico teatro rimasto aperto fino alla fine era un teatro chiuso: il Valle. Chiuso per gli allestimenti, aperto per le mostre: ma adesso ha serrato i battenti, come tutti gli altri.

Ecco: c’è un “adesso”, come ci sarà – si spera tra poco – un “prima” e un “dopo”. Un prima del virus e un dopo.

Come sarà il dopo? Mi auguro, penso come tutti, di passare il lunedi di pasqua all’aria aperta, o di festeggiare il 25 Aprile tutti in piazza, a ballare nudi, a suonare e cantare per una rinnovata liberazione.

E come sarà il dopo del teatro?

Non oso immaginare quel che stanno vivendo, quotidianamente, i teatranti direttamente coinvolti in questa terribile situazione. Come ricominceremo? Faremo finta di nulla? Viene da chiedersi se potremmo veramente far finta di nulla. Molti avranno perso dei cari, in questa tragedia. Molti hanno perso il lavoro: spettacoli saltati, prove improvvisamente inutili, impegni presi e abbandonati. Soldi buttati.

Ma non solo. In molti viviamo in un misto di nostalgia e svogliatezza, di insorgente apatia – a mala pena contrastata dal volontarismo streaming. Ci sta passando la voglia, ci stiamo spegnendo?

Perdiamo progressivamente e inesorabilmente – almeno io – slancio e curiosità: ci stanchiamo subito e l’ottimismo della volontà cede silenziosamente il passo al pessimismo della ragione. Una quieta disperazione che camuffiamo in gesti di eclatante inutilità: come ascoltare l’inno nazionale ogni pomeriggio alle 18 (almeno, qui a Roma capita). E dunque cosa sarà dopodomani: recuperiamo il perduto, riprendiamo da dove ci eravamo lasciati –  è possibile?

Forse le programmazioni non potranno essere le stesse di “prima”. O forse invece sì, non so. Quel che è certo è che il teatro non potrà non tenere conto di questi mesi, di questa cupezza, di questo stato d’animo diffuso.

E se, addirittura, tutto il teatro diventasse il luogo per parlare, elaborare, quel che è stato? All’idea di avere trecento spettacoli sul coronavirus mi chiedo: avremo voglia di sentire queste storie? Ne avremo bisogno per superare il trauma? E quegli spettacoli che parlavano di conflitti oggi dimenticati eppure urgenti – che so: l’immigrazione, le nuove povertà, le questioni di genere – dovranno arretrare di fronte alle nuove e evidenti problematicità?

Il fatto è, pensiamoci, che il teatro avrà più importanza che mai.

Questa quarantena prorogata e diffusa sta annichilendo ogni contatto e contratto sociale, ogni incontro, ogni dialogo reale. Sta annientando lo spazio pubblico: le strade e le piazze vuote, oltre che responsabile risposta alle direttive governative, sono anche simbolico avvertimento di un necessario compito che ci aspetta, e che spetta al teatro. Si tratta di ritrovare la piazza, di ricostruire la polis, di riportare in primo piano quelle libertà mortificate dallo stato d’emergenza.

Viviamo l’entusiasmo stupito per il “telelavoro”, per le connessioni “da remoto”, per la mirabolante efficacia della virtualità (ne parla oggi in una intervista sulla Stampa il sociologo Domenico De Masi), e nel frattempo ci guardiamo reciprocamente impauriti e minacciosi se ci incrociamo per strada. Va bene? è quel che vogliamo? A cosa siamo disposti a rinunciare, in favore della sicurezza? Non adesso, intendiamoci: adesso dobbiamo fare di tutto, aderire alle imposizioni necessarie, ma “dopo”, domani.

Forse tutto andrà bene, come dice lo slogan di questi giorni: tanta e tale sarà la voglia di stare assieme che i teatri saranno subito affollatissimi.

Ma, al di là degli enormi, giganteschi problemi economici, organizzativi, occupazionali, gestionali (disegnare una stagione, recuperare gli spettacoli saltati, etc) mi sembra però fondamentale che l’ambiente teatrale cominci a organizzare il futuro. Quel “dopo” in cui, intorpiditi, indolenziti, sofferenti, amareggiati, ricominceremo finalmente a vivere assieme. Come dopo una guerra, come dopo un sisma. Sta al teatro ricostruire la piazza. Prepariamoci sin d’ora: sono certo in molti lo stiano già facendo, perché non sarà compito facile.

 

(L’immagine di copertina ritrae la “marcia nel deserto del sito archeologico di Cajamarquilla, Perù, con cui cominciò lo spettacolo senza spettatori in onore di Jerzy Grotowski. L’immagine è tratta dal bel libro “I Cinque continenti del teatro“, di Eugenio Barba e Nicola Savarese, Edizioni Pagina, 2017)

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