Teatro
Dioniso, il teatro e i libri
Inizio a scrivere queste note dopo un pellegrinaggio al Teatro di Dioniso, all’Akropoli di Atene. Ritrovarlo lì, eterno e misterioso, dà una fascinazione unica. Pensare che in quello spazio – che ai nostri occhi appare comunque relativamente “piccolo” – sia iniziato tutto fa tremare i polsi. Allora, dopo l’omaggio devoto, voglio parlare di due librini, diversi per contenuto, naturalmente, eppure affascinanti e stranamente legati.
Legati da passione per il teatro, per esempio: una passione non esclusiva, non snob, non intellettualisticamente radical-chic, ma anzi aperta agli “amatori”, ai “non-professionisti”, ai dilettanti, ovvero a coloro che si dilettano nel vivere il teatro.
Proprio come accadeva nel V secolo, qua ad Atene, quando buona parte della cittadinanza viveva con amore, amatorialmente dunque, e con diletto, la propria vicinanza a Dioniso e allo spettacolo.
Il primo volume di cui voglio parlarvi (o meglio: che voglio suggerirvi), è il bellissimo Farsi luogo, scritto da Marco Martinelli e pubblicato da Cue Press. È un libro semplice e magnifico.
Una testimonianza che è un atto d’amore, un racconto che è un impeto alla rivolta, un compendio di riflessioni che è poesia. Martinelli parte dell’esperienza della “Non-scuola” creata anni fa con il Teatro delle Albe: molti conoscono la storia di questa anomala iniziativa, capace di portare il teatro agli adolescenti e gli adolescenti al teatro in vari luoghi del mondo (dalla sede naturale di Ravenna a Scampia al Senegal, da Mazara del Vallo a San Felice sul Panaro dopo il terremoto, da New York a Mons a Santarcangelo). La Non-scuola è una esperienza umana e artistica di grande potenza, difficile da descrivere a parole a quanti non ne abbiano vissuto o conosciuto gli esiti festosi e generosi: centinaia (forse migliaia ormai) di ragazzi e ragazze che affrontavano il palcoscenico con una gioia contagiosa.
Ma Farsi luogo non è certo solo un resoconto di quell’invenzione, anzi. È una riflessione morale, etica, personale e collettiva sul fare teatro oggi: «Farsi luogo – scrive Martinelli – è un edificare in movimento».
Marco Martinelli suggerisce, anziché dichiarare, com’è nel suo stile: in una struttura per punti, sono in tutto 101, passo dopo passo, il suo ragionamento si fa monito e stimolo, squarcio e decalogo. Tornano le parole care al Teatro delle Albe: ortodossia e eresia, ascolto e “rivolgersi”, speranza e meticciato, Dioniso e Nietzsche, Aristofane e Jarry, cerchio e spirale…
In questa manganelliana centuria, il libro si fa davvero fonte di ispirazione, di pensiero, di indignazione contro tutto ciò che è sterile provocazione, basso mercato, piccolo cabotaggio. Con uno stile diretto, chiaro e franco, ma a tratti ispirato e religioso, Martinelli snocciola il suo rosario intellettuale e artistico, abbracciando tutti coloro che (si) fanno teatro: attori, registi, spettatori, studiosi…
È il mondo aggraziato, sincero, cui ci hanno abituato quelli delle Albe: esercizio di cittadinanza e poesia. In un passo significativo, l’autore dice: «non ci sono ricette. So solo che il punto di partenza della spirale non è fuori di noi, in qualche rivoluzione che cada dal cielo: non è nelle analisi dei sociologi o nelle promesse dei politici: è dentro di noi, come hanno sempre saputo i ribelli e i mistici. Da lì ha inizio la sfida».
Nel cerchio magico delle rovine del Teatro di Dioniso, oggi, c’erano i turisti. Non tantissimi: molti di più erano quelli che, scesi dalla Costa Crociere, si arrampicavano all’Akropoli. Il teatro rimaneva appartato, distante, certo meno fotografato rispetto all’imponente teatro di Erode Attico, di epoca successiva ma più prossimo all’entrata dell’Akropoli.
A vederlo là, con quella sua aria distratta, il Teatro di Dioniso sembra svogliato, non si mette in mostra, non vuole stupire né ricordare. Eppure da lì sono passati quei teatranti, quei guitti che erano Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane. Alle spalle, sovrastanti, le mura inespugnabili dell’Akropoli; sotto, aperto alla natura e alla città, il teatro dei giganti.
Ogni edificio dello spettacolo ha una propria storia, lascia un proprio segno nel contesto urbano, spiega e narra l’evoluzione (o l’involuzione) umana fatta di sedimenti, di stratificazioni successive. I teatri sono sempre al centro della città, sono i salotti, sono le cantine, sono gli spazi alternativi: parlano di società e umanità almeno quanto gli attori sulla scena.
Per questo è bello seguire Nicola Fano nel suo girare attraverso i teatri d’Italia: il suo viaggio, raccontato in Andare per Teatri (edito da Il mulino), è un invito a seguire itinerari diversi nello spazio e nel tempo. Sceglie uno tra i tanti percorsi possibili, e sceglie in base al proprio gusto, alla propria curiosità. Il che fa di Andare per teatri un baedeker sentimentale assolutamente condivisibile. L’agile volume di Fano parte proprio dai teatri greci e romani in Italia: Siracusa, Nora, Ostia antica, Asti. E muove da una suggestione molto bella: parlando del primo “spazio” dedicato al teatro, nel mistero minoico, di fronte alla reggia di Cnosso, fuori dal labirinto del minotauro, Fano spiega «il teatro, a Cnosso, e ovunque nel mondo, è proprio questo: ciò che troviamo fuori. È la rappresentazione del mondo». E seguendo quella suggestione, del teatro-mondo, intreccia le possibilità di uno spettatore appassionato, di un “amatore” del teatro, in un viaggio nel tempo. Attraversa gli spazi “non teatrali”, che pure hanno fatto secoli di storia, delle sacre rappresentazioni e della commedia dell’arte, privi di “teatri” deputati; approda poi nei meravigliosi teatri cinquecenteschi di Vicenza (l’Olimpico) e di Sabbioneta, intrecciando rimandi pittorici a quelli architettonici e strettamente teatrali. Non possono mancare riflessioni sui teatri d’Opera, detti “all’italiana”, con omaggi a impresari come Barbaja e Ricordi, che portano subito il lettore dentro il San Carlo e La Scala. Ma si avverte che il cuore dell’autore batte per Roma, per quella storia di stratificazioni, di cialtronerie e invenzioni che è tutta capitolina: dalle vicissitudini dell’Argentina e del Costanzi, passando per l’inadatto teatro di Villa Torlonia, o per la vivacissima pagina comica dell’Ambra Jovinelli o dell’Apollo, fino a la gagliarda vicenda delle “cantine” dell’avanguardia, Nicola Fano racconta una città, la sua gente, i suoi problemi e i suoi sogni.
Ma è bello che il libro si chiuda con il racconto dell’Auditorium dell’Aquila, costruito dopo il terremoto da Renzo Piano e inaugurato da Claudio Abbado. Un teatro la cui storia «è così fortemente simbolica del cattivo rapporto che ormai il nostro Paese ha con arte e cultura che merita di essere raccontata». Dopo le tante (e inutili) discussioni che hanno accompagnato il progetto, Nicola Fano invita i lettori semplicemente ad andare all’Aquila e valutare. «L’Auditorium di Renzo Piano è unico – conclude l’autore – e affascinante al colpo d’occhio (…) ha compiuto il miracolo di ridare agli aquilani un luogo dove andare a passeggiare la sera d’estate e la domenica mattina d’inverno. Esattamente ciò che il teatro, nei millenni, ha sempre fatto, garantendo uno spazio e una ragione d’essere alla socializzazione, alla necessità delle persone di incontrarsi».
Due libri, due racconti, da leggere e regalare a chiunque. Perché poi, dal teatro di Dioniso del V secolo avanti Cristo all’Auditorium dell’Aquila inaugurato nel 2012, ci troviamo tutti nel cerchio aperto e vivo del teatro.
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