Teatro

Di libri e musica e teatro

26 Maggio 2020

Mentre si intravede una possibile, paradossale, irrisolta ri-apertura delle sale agli spettacoli (il 15 giugno Ascanio Celestini in scena a Pesaro, a mezzanotte, dovrebbe battere il record della tempestività: l’Amat ospiterà l’ormai storico Radio Clandestina), ci sono cose da segnalare per continuare a vivere di teatro senza teatro.

Una manciata di libri belli, ad esempio.

A partire dal corposo Leggere uno spettacolo multimediale di Anna Maria Monteverdi. Mai titolo fu più opportuno in questi tempi di streaming diffuso: Monteverdi, da attenta studiosa qual è dei fenomeni storici e contemporanei in materia di contaminazioni tra tecnologie e scena, fa un ampio excursus storico-critico sulle teorie e le prassi del “multimediale”, svelando coerentemente possibilità e limiti di una pratica, che non è una “novità” che dobbiamo al Coronavirus, come tanti entusiasti neoesperti credono e sostengono, ma un ramo di indagine creativa che ha attraversato la seconda metà del Novecento, raggiungendo punte di sperimentazione davvero alta.

Dunque un libro (edito con cura da Dino Audino Editore) che merita attenzione e studio, anche per orientarsi negli scenari contemporanei e futuri e per distinguere dalle tante forme di intrattenimento autoprodotte di questi giorni telematici. A questo proposito, mi piace far notare che il volume è dedicato a Giacomo Verde, artista raffinatissimo e militante, recentemente scomparso, alfiere antelitteram di un teatro “tecnologico” che in Italia (per citarne solo alcuni: vedi Michele Sambin, Carlo Infante, Tpo di Prato, Studio Azzurro, Barberio Corsetti, ed esperienze come il Coreografo Elettronico e molto altro ancora) ha avuto momenti di indubbia eccellenza.

 

Ancora un volume da segnalare: torna in libreria l’opera di un genio come Bernard-Marie Koltès. Molti lo avranno scoperto per il discutibile monologo fatto da Pierfrancesco Favino a SanRemo, con accento da immigrato problematico. In realtà l’opera di Koltès è di straordinaria forza, di immaginifica poesia, di altissima scrittura.

Ebbene, merito della coraggiosa casa editrice ArcadiaTeatroLibri, ecco – in tre volumi – il percorso umano e artistico (i due aspetti sono probabilmente inscindibili) del drammaturgo francese, scomparso prematuramente il 15 aprile 1989, falcidiato dall’Aids. Koltès, genio umbratile e visionario, politico e ribelle, è raccontato da una bella, sincera, introduzione di Arnaud Maïsetti, che rievoca il clima teatrale, politico, umano, in cui l’autore si è formato ed è arrivato al riconoscimento prima nazionale (grazie soprattutto all’impegno di un maestro della regia come Patrice Chéreau, che decise di scommettere sulla scrittura di quel giovane sconosciuto) e poi europea. Nel primo volume, con traduzioni agili e credo scenicamente efficaci, sono raccolti Le amarezze, L’Eredità, Quei Ouest, Lotta di Negro e cani e Nella solitudine dei campi di cotone. Testi bellissimi, intensi, lirici, struggenti, complessi e netti nel loro stare al mondo. Ricordo ancora l’edizione Guida del Roberto Zucco, l’ultimo dramma scritto da Koltès, pubblicato in Francia nel 90 e in Italia due anni dopo. Nella postfazione di allora, Anita Tatone Marino citava una frase di Bernard-Marie Koltès: «direttamente non si può dire niente con le parole, si è costretti a dire dietro le parole». Una suggestione forte, che si può ritrovare anche nelle pagine della nuova raccolta. Maïsetti ricorda la passione di Koltès per i viaggi, l’Africa, il Nicaragua, New York; l’avversione per il teatro del suo tempo – «preferisce le favole che gli racconta il cinema, e la musica popolare, il reggae di Bob Marley o il rap, che accomuna le persone che ama» – che lo porterà anche a momenti di tensione con Chéreau, fino al livido faccia a faccia con la morte che lo porterà a scrivere, appunto, Roberto Zucco, evocando le gesta folli di un criminale pluriomicida italiano realmente esistito. A rileggere oggi i drammi di Koltès si rimane ancora stupiti e affascinanti per la forza ribollente, per il taglio politico (e sociale), per quello stile altissimo, fatto di volute ariose e aguzzi affondi. Aspettiamo i prossimi volumi. Da leggere, da ascoltare, da vedere in scena.

 

 

Ancora un libro, vivacissimo sin dal titolo che dai colori di copertina: ArabPop, arte e letteratura i rivolta dai paesi arabi, curato da Chiara Comito e Silvia Moresi per Mimesis. Questa raccolta di saggi è preziosa per fare il punto su una ampia, articolata, coraggiosa produzione culturale che emerge dai paesi arabi dopo le cosiddette “primavere”, quei fermenti di rivolta che hanno raggiunto esiti diversi, non sempre felici. Ma in quel vasto territorio che noi “occidentali” chiamiamo “mondo arabo”, così legati come siamo a stereotipi e pregiudizi, arrivano segnali di una rinnovata e interessante creatività. Bloccati nella nostra “ignoranza dei colti” come ricordano le curatrici nell’introduzioni, siamo incapaci di vedere e di capire profondamente letteratura, arti visive, cinema, danza, musica, teatro. Invece, fior di artisti stanno combattendo battaglie su più piani e più livelli: politici, linguistici, strutturali, economici. E non inganni il titolo, ArabPop, dove pop sta appunto per “popolare”, dal momento che il volume indaga accuratamente «le espressioni e i fenomeni artistici ibridi nati spesso dal basso, che dileggiano e contrastano la cultura ufficiale e di regime, e che, anche grazie ai nuovi mezzi di comunicazione e alla “cassa di risonanza” delle rivoluzioni, sono riusciti a raggiungere un buon successo localmente e spesso anche al di fuori dei confini nazionali». Per quel che riguarda il teatro, poi, mi piace segnalare il bel saggio di Anna Serlenga, studiosa e artista che ho avuto il piacere di seguire sin dagli esordi scenici, che qui illustra con dovizia di esempi alcuni fermenti libanesi (a partire dal noto Rabih Mrué, capofila di una nuova generazione, fino a Alexander Paulikevitch, primo danzatore uomo di danza del ventre del mondo arabo) e tunisini, paese in cui il «tema del corpo e della rivendicazione di uno spazio di esistenza per identità negate dalla legge e dalla società nel mondo arabo ha dato vita a interessanti movimenti». Serlenga cita il movimento #anazeda, corrispettivo tunisino del #metoo, racconta i festival “Chouftouhonna”, che significa “Le avete viste?”, manifestazione di arti femministe, e “Dream City Festival”, o Biennale d’Arte Pubblica di Tunisi, il cui scopo è «sognare una città». Scena militante, dunque, che inneggia alla libertà individuale e collettiva, e che trova eco nel mondo musicale, in quello cinematografico, nel fumetto o nelle arti plastiche.

 

Infine, dopo questa carrellata di libri, voglio omaggiare il lavoro di un maestro come Enzo Moscato che ha appena messo su cd, un tempo si sarebbe detto su vinile, un suo lavoro: Modo minore, progetto e direzione musicale di Pasquale Scialò edito da Squilibri, è un cofanetto prezioso (arricchito anche dai disegni di Mimmo Palladino) di uno spettacolo che si fa cd e di un cd che è spettacolo.

Da anni, decenni forse, seguo con rispettosa devozione il percorso poetico di Enzo Moscato. E confesso la mia ammirazione anche per il Moscato “cantante”: merito suo una delle più belle interpretazioni di Malafemma. Con Modo minore, Enzo Moscato rievoca il tessuto sonoro della sua adolescenza a Napoli, con una carrellata di titoli (arrangiati magnificamente) molti dei quali conosciuti, vere e proprie hit degli anni Sessanta e Settanta, altri meno ricordati eppure appartenenti, tutti, a un immaginario collettivo fatto di amori estivi, languori struggenti, ricordi e sogni, balli innocenti, fughe nostalgiche, gelosie incontenibili. Modo minore è un melange, di generi, stili, scuole: eppure tutto si tiene, armoniosamente, per la voce nitida e fragile di Moscato e per il notevolissimo ensemble di musicisti. Il lavoro ha un garbo unico, e una verve trascinante che continuamente scivola in struggenti emozioni: tra titoli originali (come Carnale, un tango che apre il cd), altri noti e reinventati (come Nun t’aggia perdere che si intreccia con l’incipit del celebre Köln concert di Keith Jarrett) e medley sorprendenti (Arrivederci, Cerutti Gino e Ciao amore ciao), da Dracula Cha cha cha a Que sera sera, fino ai classiconi della canzone napoletana, come Accarezzame, il flusso sonoro di Modo Minore avvolge l’ascoltatore, trasportandolo nel tempo e nello spazio. È un viaggio, malinconico, sentimentale, di frammenti e suggestioni, di parole e note, di un passato che non torna. E non c’è nulla da fare. Dice ‘O bar ‘e ll’università, del 1971: «Comm’è amaro stu caffè / ca me piglio ‘nzieme a te / Comm’è amara ‘a verità / Sceta ‘e suonne e se ne va / Se chiama giuventù / ma i’ nun ‘a trovo cchiu».

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