Teatro
Deflorian – Tagliarini: c’è tanto in quel “Quasi niente”
Come sorpresi, stupiti o già inorriditi di sé, nell’atto di vivere. Come guardarsi mentre stiamo, in questa storia, impreparati, confusi, un po’ condiscendenti, certo spiazzati. Quasi niente, il nuovo lavoro di Deflorian/Tagliarini, è un passo offerto allo spettatore verso se stesso, uno sguardo al mondo e all’oggi che attinge al film Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, ma sposta, un po’ dolente e struggente, verso quel che resta di noi. L’incomunicabilità, la difficoltà, la solitudine: quei temi, cari al regista di Ferrara che seppe guidare, splendidamente, Monica Vitti nei meandri delle prime crisi esistenziali di individualità spaurite, diventano per Deflorian/Tagliarini l’occasione per una riflessione non solo personale ma collettiva.
Ecco, lo dico subito: quel che commuove, in questo spettacolo rarefatto e quasi impalpabile, è proprio la suggestione che regala come un sussurro, lo specchio che fornisce – educatamente, sommessamente – al pubblico di ogni generazione. Una suggestione che si deposita, come una leggera polvere, e fa effetto giorni dopo, tempo dopo. Quel che ho avvertito è una sorta di effetto ritardato, retroattivo. Ho capito dopo. Lì per lì non avevo condiviso, anzi: ma come un fiume carsico Quasi niente è tornato chiaramente, a pormi domande.
Lo spettacolo, visto al teatro Argentina, nell’ambito della coraggiosa programmazione del potente Romaeuropa Festival, è un’amara dichiarazione di esistenza in vita, è un racconto familiare, quotidiano, spiccio e pudico come possono esserlo certe confessioni fatte arrossendo, timidamente, dietro un bicchiere di vino, dopo cena.
Ma è anche una radicale denuncia di condizioni sociali e inter-generazionali. Non è più in questione il nostro malessere individuale, personale, ormai anzi conclamato – certo, c’è anche quello, eccome – quanto piuttosto il disagio di essere al mondo ormai inadatto a tutto, ripiegato su se stesso, chiuso. Ci siamo come chi intravede l’orrore del fallimento storico eppure si consola, si carezza cercando risposte minime, marginali, vie di fuga che dolcemente ci spingono ancora un passo avanti. Non cedere, andare avanti, giorno dopo giorno: come avrebbe fatto Vanja, insistere per lavorare, provare a amare. Quasi niente, appunto.
In scena, assieme a Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, sono Monica Piseddu, Francesca Cuttica, Benno Steinnegger.
Si identificano per età, per fasce generazionali: la quasi sessantenne, il cinquantenne, la quarantenne e via così. Sono condizioni, che dovrebbero segnare differenze e che invece – a lungo andare – sembrano unirsi tra loro, somigliarsi, proprio come sottolinea il testo. Le tre età della donna.
Quasi che le maschere della vita, impregnate di anni, di rughe o di ferite a qualsiasi età, siano ormai vicine, somiglianti per l’appunto, ossia legate dalla stessa sofferenza, dallo stesso disagio, dalla stessa incapacità. Incapacità a cosa? Ma a tutto, ovviamente. Giriamo a vuoto, ed è la stanchezza che ci assale.
Lo dice subito la meravigliosa Monica Piseddu, è lei la “quarantenne”, aprendo il lavoro: «non ce la faccio». Corriamo, sempre di fretta, ci fissiamo, ci osserviamo fino allo sfinimento. E non ce la facciamo, pervasi di spossatezze nuove e paure passate. Vite complicate. Ma non era meglio prima? E non era meglio il teatro di una volta? Non si fa più, non si può più fare, quel bel teatro d’antan, tutto trame e personaggi ben delineati, così consolatorio. Lo dice ancora la quasi quarantenne: quanto sarebbe più facile, no?
Invece è la vita che sfugge, che tiene ai margini, che ci costringere ad ammettere il (nostro) non essere adatti. Ecco, allora dove si apre lo squarcio politico, sociale, culturale di questo spettacolo così apparentemente intimo e privato. Deflorian e Tagliarini e i loro sodali sanno bene la realtà: la sanno per vissuto, per comprensione, per studio.
Sanno appoggiarsi a quei riferimenti che più di altri illuminano la questione: non solo Antonioni, dunque, ma anche, tra le righe di un testo molto ricco di sfumature lievi eppure sferzanti fa capolino – almeno per me – la filosofia di Byung-Chul Han. Scrive Han ne “La società della stanchezza”: «In quanto società dell’azione, la società della prestazione si evolve lentamente in una società del doping (…) L’eccessivo aumento delle prestazioni porta all’infarto dell’anima. La stanchezza della società della prestazione è una stanchezza solitaria, che agisce separando e isolando». Ci pensavo: una società stanca, quale più di quella romana? Di questa Roma sfranta di oggi?
E pure lo spettacolo fa riferimento, in uno dei suoi momenti più tesi, al racconto tra il biografico e il pedagogico di Mark Fisher, quel «Buono a nulla» che muta la propria depressione in una riflessione condivisibile, uno schiaffo al mondo e alla società.
Quasi niente, già ampiamente recensito (mi piace rimandare al bell’intervento di Massimo Marino qui) fa capire, senza mezzi termini, che il re è nudo, che è il sistema che non va. Proviamo risposte, tentiamo fughe, approntiamo soluzioni posticce per dare senso, uno straccio di sicurezza in più: integralismi, estremismi politici ma anche religioni improvvisate, derive mistiche, o culto del fitness, diete alla moda o ancora l’eterna analisi.
Non lo diciamo, che il sistema è sbagliato, siamo anzi pronti a farci convincere che siamo noi, a essere sbagliati. Ci colpevolizziamo, ci guardiamo con orrore. Non andiamo bene. Ci affidiamo a frammenti di memoria, a oggetti cari, una foto, una poltrona, il ricordo dei genitori per salvarci almeno un po’. Che facciamo? Dove andiamo a sbattere la testa? Andiamo avanti così?
I protagonisti di Deserto Rosso sono ripetutamente citati, evocati, illustrati: Giuliana, quella donna splendida, e i suoi due uomini, Ugo, suo marito e Corrado, l’amico. Uomini incerti, dubbiosi, faticosi. E lei, sfolgorante nelle sue fragilità.
Ma, a mio parere, non sono questi i cardini attorno cui gira Quasi niente.
Sembra diradato nello spazio, questo spettacolo, e distillato nel tempo: gli attori e le attrici si impossessano con consapevolezza dell’ampio palcoscenico dell’Argentina, tagliato da un velatino che divide un frontale chiaro, evidente, e uno sfondo soffuso, tenue, da cui emergono quelle figurine minute, garbate nei gesti e nei toni. E verso quel mondo apparentemente lontano, schermato, torneranno a ricoverarsi, salvo poi stagliarsi, illuminati sul finale da luce cruda, per un ultimo istante, quando lo squarcio finalmente si richiude. Le vite continuano. Ciascuno con la propria ferita, in un mondo che si accanisce per farla sanguinare. E anche il sesso, lo racconta bene con amara ironia Antonio Tagliarini, diventa sempre più un problema: così facile, così afferrabile, così semplice, lascia solo un senso di vuoto in più.
Non tutto si intreccia alla perfezione: qualche lungaggine, certe reiterazioni, o le due canzoni, ad esempio, affidate alla pur bravissima Francesca Cuttica, che sembrano un po’ troppo staccate dall’insieme. E magari l’ottimo Benno Steinneger, che ritroviamo volentieri in scena dopo passate esperienze con altri gruppi, può affondare ancor di più il coltello nelle ansie del suo personaggio.
E non vorremmo, mai, che quel teatro “ipotetico”, lo stile creato da Deflorian/Tagliarini, fatto più di dubbi, ipotesi, domande che di affermazioni o verità, si fletta a codici ormai assunti da più parti, ossia diventi stilema, meccanismo (quel guardarsi, ad esempio, consapevole e comprensivo, un po’ manierato). Merita di sottolineare, invece, la prova di Daria Deflorian, con cui tutto acquista senso e verità: entra in scena e porta tutti in volo. Umanissima e tenera, autoironica e implacabile quale solo lei sa essere, invera l’intero spettacolo. Nei volti dei quattro interpreti, nel sorriso antico di Daria, c’è il senso profondo di questo spettacolo.
Ci siamo noi, spettatori incauti, sfranti, affaticati, a inseguire la nostalgia del futuro. Sorridiamo con un accenno di imbarazzo al nostro essere quasi niente.
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