Teatro

Danza: a Roma uno spettacolo da non perdere

20 Luglio 2018

Arriva a Roma, finalmente e purtroppo per una sola data, uno spettacolo davvero imperdibile. L’avevo visto la scorsa estate al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, dove aveva debuttato, e in quell’occasione, come tanti altri presenti, rimasi incantato. Lo spettacolo si intitola La morte e la fanciulla, ed è un balletto di straziante bellezza, ispirato, ovviamente, al celebre quartetto di Schubert.

Va in scena, dunque, domani, 21 luglio, al Teatro Vascello, nell’ambito della vivace e ben strutturata rassegna FuoriProgramma, diretta da Valentina Marini, manifestazione che continua poi ancora con altri appuntamenti (il programma qui) e in cui spiccava anche il debutto nazionale di Don’t talk to me in my sleep, della coreografa serba Dunja Jocic.

 

Don’t Talk to me in my sleep, di Dunja Jocic

Ispirato al contorto rapporto di Andy Warhol con sua madre, in un clima claustrofobico alla Psycho, questo lavoro ha squarci davvero intriganti, sottilmente e intelligentemente fastidiosi, ossessivi nelle reiterazioni e nelle spezzettature dei gesti, con dialoghi serrati (tutti registrati e amplificati da piccoli registratori a mano) in cui madre onnipresente e figlio ribelle combattono battaglie quotidiane di sopravvivenza. Ben intrepretato dai giovanissimi Luca Cacitti e Shai Partush, sulle musiche presentissime, tra sinfonica pop e elettronica, curate sapientemente da Hugo Morales, lo spettacolo svela una curiosa e originale cifra, forse non completamente riuscita, ma ben sospesa tra danza, performance e teatro, che al tempo stesso sa tenere le fila di una narrazione possibile, addirittura mimetica, ammantata da feroce e implacabile ironia.

 

Ma è su La morte e la fanciulla di Abbondanza/Bertoni che vorrei tornare, invitando davvero amici, parenti, conoscenti, appassionati, disincantati, annoiati, e perplessi a recarsi senza remore fin su al Gianicolo per imbattersi in uno spettacolo che, mi auguro, saprà sorprendere e affascinare. Raramente faccio simili “promozioni”: conto sul fatto di aver già visto lo spettacolo e mi spiacerebbe che questo sabato di luglio, in cui – almeno con la testa – siamo già tutti al mare possa nuocere alle tre bravissime danzatrici.

Ecco dunque quel che scrissi da Castiglioncello:

… La coreografia di Michele Abbondanza e Antonella Bertoni è di impianto classico, seppur venata di tensioni e stridori tutti contemporanei. In scena, le tre splendide e intense interpreti – Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Claudia Rossi Valli – partono da una incarnazione, quasi una azione mimata, dell’altrettanto noto e commovente Lied scritto dallo stesso Schubert. Il tema è tragico: la fine di tutte le cose, la scomparsa o la perdita della bellezza. “Dammi la tua mano/bella creatura delicata” dice la Morte.

Non so: saranno i miei cinquanta anni, sarà la consapevolezza di tutto quel che sfugge, sarà la nostalgia, ma questa versione de La morte e la fanciulla è stata per me una epifania di dolore e struggimento. Proprio la bellezza infinita e amara del corpo femminile diventa, nel crescere dello spettacolo, una macabra evidenza del sepolcro, uno stordente “memento mori”.

Le tre danzatrici, dopo il breve prologo, lasciano la scena entrando in una dimensione “altra”: sono seguite, infatti, da una telecamera che riprende in un bianco e nero sgranato il “dietro le quinte”, registra il rumore del fiato, del respiro appesantito dallo sforzo, spostando la dinamica dell’osservazione su un altro piano. Le immagini, proiettate sul fondo del palcoscenico, sono il contraltare freddo e analitico della passione portata in scena. Così, osserviamo cosa c’è al di là, oltre le quinte nere che tagliano l’orizzonte visivo. Ecco, dunque, le tre danzatrici prepararsi per rientrare in scena: sciolgono il morbido nodo di una leggera vestaglia e tornano sotto i riflettori, completamente nude. La nudità, da quel momento, sarà l’algido costume di scena.

 

foto di Simone Cargnoni

 

La perfetta forma, le volute e le mordidezze di corpi giovani, tesi, muscolosi, nervosi, i lunghi capelli sciolti: nelle dinamiche compositive, sull’incalzante e straziante musica di Schubert, quei corpi sono le Tre grazie di Canova o le Tre età di Klimt, sono la danza di Matisse o le affilate sagome di Giacometti, sono Schiele o Masaccio. Sono Erinni e Muse, Baccanti e streghe, Ninfe e animali.

Sono la Bellezza, insomma, tagliente come un ricordo, un sogno che svanisce freddo: sono gli scheletri oltre il candore della pelle. Alternando assoli frenetici e passi a due (o tre), con inserti a terra che non risparmiano violenza e fatica. I tempi del quartetto vengono scanditi da scritte proiettate, Allegro, Andante, Scherzo allegro molto, Presto: ma la struttura musicale è la gabbia, la porta stretta attraverso cui passare inesorabilmente. L’erotismo, l’amore, il sesso, la gioia, la vita sono là, che si dissolvono, che si sfumano nella grazia infinita di anime e corpi che non saranno più.

La coreografia, vista al debutto, forse è ancora da perfezionare qua e là, magari certe soluzioni sono un po’ semplici (il triplo finale, ad esempio), ma vi è uno struggimento per il tempo che passa così forte da togliere il fiato. Se questa era l’intenzione di Abbondanza/Bertoni e con loro di Eleonora Chiocchini, Valentina Dal Mas e Claudia Rossi Valli, direi che hanno raggiunto lo scopo. Un umanissimo e commovente canto a quel che è stato e non sarà più.

Viene da pensare, allora, che la danza italiana viva anche di eccellenze assolute: nel balletto come nel contemporaneo o nella performance, vantiamo coreografi e danzatori di grande qualità. E così come siamo pronti, giustamente, ad omaggiare gli artisti che arrivano d’oltralpe, dovremmo premiare quantomeno con altrettanto attenzione produttiva oltre che critica, con più strumenti e mezzi, spazi e incentivi quanti, ostinatamente, fanno danza in Italia.

 

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