Teatro
D’Annunzio finisce in cabaret
La storia si ripete come farsa, diceva quello. In certi casi anche come cabaret. Con il suo carico parodico, irriverente, grottesco e tagliente Certo non mancano personaggetti da farsaccia, nella nostra storia recente, macchiette che pure non sfigurerebbero in un cabaret macabro: politici, intellettuali, prelati, si sentono tanto eroi shakesperiani dilaniati di fronte alla grande macchina della Storia, e sono solo figurette bidimensionali degni al più di una risata o di un siparietto.
Mettere il nostro tempo al fuoco del cabaret, non vuol dire fare la banalotta satira televisiva, ma cogliere tutta la amara decadenza, la ridanciana fine di una civiltà boccheggiante. È una danza melanconica sulle note di una canzonetta, un raccontare tra superficialità e disillusione, con lo sguardo di chi le ha viste tutte e prova a riderci su. È una pernacchia al funerale per nascondere le lacrime, oppure il ghigno amaro che caccia via la tragedia.
E incombe, sotterranea e magmatica, la tragedia in Cabaret D’Annunzio, spettacolo scritto da Fabrizio Sinisi, una delle migliori giovani penne del teatro italiano, e messo coraggiosamente in scena dal regista Gianpiero Borgia al Dramma Italiano di Fiume. Incombe, perché nell’attuale Rijeka la memoria della “reggenza” dannunziana è tutt’altro che serena: una occupazione, semmai, ricordata per il suo carico di violenza e sfruttamento.
Nella città croata, che sarà Capitale della cultura nel 2020 (ne parlavo qui), il teatro è una roba seria: si va in scena ancora con i crismi e i ritmi di un lavoro pubblico, statale, con attori regolarmente assunti e stabili, e con una comunità – in questo caso prevalentemente quella della minoranza italiana ma non solo – che affolla volentieri il suo teatro nazionale. Dunque, si può immaginare quanto e come sventolare il nome del Vate potesse rischiare di far saltare la mosca al naso agli spettatori, anche più appassionati.
Ma la forma del cabaret, con il suo montaggio per numeri o attrazioni, con gli interventi di canto a far slittare da una situazione all’altra, con quell’aria un po’ cialtrona da guitti di avanspettacolo, ha fatto svanire le preoccupazioni preventive e ha restituito un ritratto fortunatamente non agiografico, ma anzi originale e fresco, di Gabriele D’Annunzio.
Se pure la drammaturgia è ancora da limare, l’esito è incoraggiante. A dar corpo e voce al poeta pescarese è il bravo Fabrizio Coniglio, che assume un approccio quasi da “fanciullino”, sospeso tra eterno stupore e consapevolezza, tra eleganza e rabbia trattenuta. Il racconto gira intorno a lui, alla faticosa, ossessiva, certosina opera di edificazione del monumento a se stesso – complice i media di allora, una sapiente “campagna immagine”, e una buona dose di carisma – con cui D’annunzio attraversa la vita e la storia. Coraggioso o folle, istrione e letterato, indipendente e spavaldo, erotomane e romantico, questo D’Annunzio non esita a celebrare la propria fantasia gioiosa, coinvolgente e seduttiva, e mette la poesia al centro della visione di un mondo possibile. Con il suo elegante doppiopetto bianco, le scarpe bicolori, Fabrizio Coniglio non imita né tanto meno celebra la figura del poeta, ma se ne incarica, quasi brechtianamente, senza mai aderirvi poi fino in fondo.
Così, quando la Storia, quella vera e aspra di sfruttamento e sopraffazione, gli si proporrà davanti in tutta la sua barbarie, quel D’Annunzio da cabaret svelerà il suo insopportabile menefreghismo. E la collusione con il fascismo – con un Benito Mussolini veramente da operetta che canticchia Petrolini – diventerà capricciosa richiesta di soldi e “giocattoli” per allestire il suo Vittoriale.
E in mezzo, tra un estremo e l’altro, vi sono spazi anche per la consapevolezza del mondo e dell’Uomo che l’intellettuale D’Annunzio indubbiamente aveva; vi è spazio per l’incontro con Eleonora Duse, la divina attrice (ruolo non facile affidato a Elena Cotugno) e per la loro lovestory da protagonisti dello starsystem di allora; c’è spazio per citare stralci dell’opera poetica o per un paio di curiosi aneddoti in cui D’Annunzio svela le sue doti di pubblicitario antelitteram.
Nella frenesia di un lavoro che al debutto sembra ancora da assestare, vibra comunque quella smania assoluta di vita che è febbrile ritratto del poeta: «servono più vite, tutte insieme», dice più o meno il D’Annunzio di questo cabaret straniato.
Sulle musiche da vivo di Aleksandar Valenćić, si muove un carillon di personaggi, affidati a un manipolo di attori che coprono più ruoli, con esiti a tratti non omogenei. Da citare, oltre ai protagonisti, anche il bravo Mirko Soldano, un efficace e ironico Tom Antongini, poi Giuseppe Nicodemo, Rosana Bubola, e Valerio Tambrone come Mussolini. Con loro in scena Ivna Bruck, Anton Plešić (bene come editore Treves), Sabrina Salamon, Leonora Surian Popov.
La regia di Gianpiero Borgia orchestra al meglio la messainscena che, come ogni cabaret che si rispetti, lascia un retrogusto amaro, di disincantato disagio. Probabilmente, quando lo spettacolo girerà al suo meglio, ovvero dopo qualche necessaria replica, superando alcune pedanterie di testo, il Cabaret troverà la ferocia tagliente, ancora trattenuta sotto gli eccentrici costumi e le lucine della ribalta. Spingendo sull’acceleratore, che so, di Kurt Weill o Karl Valentin, ce lo troveremo davanti, Gabriele D’Annunzio: che non è quello che ci hanno fatto studiare, né quello dell’iconografia tradizionale, non è il D’Annunzio poeta e eroe. Ma il paradigma di una italietta egoista e arrivista, di ieri e di oggi, sempre sognante sull’orlo del baratro. Ogni riferimento a fatti o persone viventi è puramente voluto.
Devi fare login per commentare
Accedi