Teatro
Contro Eduardo
Trent’anni sono passati dalla morte di Eduardo. Sul nostro sito Francesco Nicodemo lo ha ricordato come campione di teatro civile. E ha sottolineato quanto oggi sarebbe importante far conoscere le sue cose ai più giovani, ai ragazzi per i quali “Eduardo De Filippo” è solo un mito imbalsamato, un nome vuoto, il titolo di una strada.
Di tutt’altro avviso, e da tutt’altra cattedra, Roberto De Simone ha operato una rilettura critica ferocissima sulle pagine del Mattino. Ferocissima, ma non acutissima, anzi molto zoppicante nelle argomentazioni. Secondo me.
Ora. Io ho una venerazione pressoché assoluta per il maestro De Simone – per il suo teatro, per le sue musiche, per i suoi scritti, per la sua intelligenza – un’adorazione quasi mistica (una volta chiamai a casa sua per intervistarlo, e quando lui alzò la cornetta e, cos’altro doveva fare, disse Pronto, io mi meravigliai così tanto che stesse parlando, e stesse parlando proprio a me, manco fossi al telefono con San Gennaro). Per dire, se mi condannassero a guardare tutti i giorni della mia vita una piéce, senza esitazione sceglierei La gatta Cenerentola e non Natale in casa Cupiello. (Io dico “io”, mi permetto di parlare di me, proprio perché non penso di avere opinioni così originali, gusti così unici: preferisco De Simone, come milioni di altre persone; così come milioni di persone preferiscono De Filippo). Però.
Al maestro De Simone ha risposto, sempre sul Mattino, il maestro Nicola Piovani, controargomentando da non-napoletano. E tutta la tarantella è stata ben riassunta e introdotta da Angelo Carotenuto sul suo blog. Volevo solo aggiungere qualche nota sulle argomentazioni del maestro, anzi sulle non-argomentazioni.
Infatti, un primo gruppo di stilettate non è rivolto a Eduardo, ma alla sua “fortuna”, come si dice in gergo critico: al suo pubblico, alla politica.
Sarebbe bastato, come base di partenza, riconsiderare i giudizi critici del passato sul De Filippo, prima che l’Ufficialità ne canonizzasse il mito e ne sancisse la monumentalità nazionale e indiscutibile. (…)
In questo modo la politica fece propri i temi filumeneschi, cupielleschi, jovineschi, ricambiando l’attore con la nomina di senatore a vita, e con una eduardoteca prodotta dalla televisione di Stato.
De Simone accusa il suo successo totalizzante, prevaricatore, che ha fatto terra bruciata di tutto il resto.
Fino alle soglie degli anni ’50 era presente a Napoli una variegata tradizione teatrale, del tutto oggi obliata e cancellata dalla successiva omologazione al modello eduardiano. (…)
[I suoi] canoni rappresentativi, estranei alla tradizione, avrebbero potuto costituire la cifra propria di uno stile personale, se non fossero assurti a codici universali cui far riferimento per ogni di tipo di teatro.
Segue una ricostruzione, come sempre accurata e affascinante, del teatro napoletano pre-eduardiano, del suo periodo d’oro e della sua crisi. Ma non si capisce: che colpa ne avrebbe il povero Eduardo? Il peggio però deve ancora venire.
Il peggio viene toccato nel secondo tipo di osservazioni, dove De Simone si lancia nello psicologismo, anzi, nella psicanalisi for dummies.
Risulta evidente nell’Autore un insanabile conflitto tra spinte interiori e freni intellettuali, derivati da una natura ripiegata su se stessa e autoreferenziale, relativa al dramma di avere un nome senza cognome.
Eeeh??? Cosa vuol dire avere un nome senza cognome? Alla lettera, vuol dire avere un cognome che è a sua volta composto da un nome: De Filippo. Fa ridere che una cosa del genere sia detta da uno che si chiama De Simone! (e, en passant, stigmatizzata da uno che si chiama De Marco). Se invece è un modo sottile per alludere alla nota ma non meno dolorosa ascendenza eduardiana (era figlio naturale del grande Scarpetta), beh allora scadiamo dalla psicanalisi all’insulto puro (figlio di p…).
Veniamo infine al terzo tipo di critiche. Quelle che sembrano argomentazioni ma che invece, a ben guardare, sono semplici constatazioni:
Nel teatro di Eduardo la rappresentazione, articolandosi per lo più fra le quattro pareti di una stanza, risulta connotata da un intimistico recitare sommesso, crepuscolare, da controllata gestualità di tipo naturalistico che spesso approda a un realismo cinematografico. Inoltre ai suoi attori era tassativamente negata ogni possibilità di improvvisazione, esigendo egli una totale e rigorosa fedeltà al testo scritto.(…)
Un teatro contenutistico e moralista, a discapito dell’agogica teatrale, che trovava ampio consenso e favore nella napoletanità neo-trasformista borghese e piccolo-borghese, sempre sensibile ai pistolotti di battuta.
Ok. Quindi, teatro di prosa, borghese, di contenuti, di introspezione. Che, magari, era esattamente quello che Eduardo voleva fare.
Il linguaggio dialettale subiva graduale attenuazione a favore di una italianizzazione delle forme idiomatiche per risultare più comprensibile a Roma, a Firenze e a Milano.
Esatto. Ovvero, in grado di parlare al mondo, come dice Piovani: teatro che supera l’oleografia napoletana, “pervaso di acidulo pessimismo, spietato anti-familismo, amaro anti-moralismo”. Arte moderna, ovvero quella che viene dopo l’arte classica e prima dell’arte contemporanea. E infatti:
L’arrivo in Italia del Living Theatre picconò senza riserve tutto il teatro di parola collocandosi all’opposto del moralismo e del familismo espressi dalle Filumene o dai protagonisti di «Sabato, domenica e lunedì». A Napoli, la marginalità del circondario urbano esplodeva con il complesso musicale di «Napoli centrale» in cui l’asprezza linguistica di James Senese e di Pino Daniele, rappresentavano la chiara reazione all’appiattimento dialettale del De Filippo.
E qui siamo all’apoteosi. De Simone compie il miracolo di toccare contemporaneamente il massimo della lucidità, e il minimo. Se infatti la sequenza commedia dell’arte-teatro di prosa-avanguardie è limpida e indiscutibile, non si capisce che colpa ne abbiano i singoli anelli della catena, ognuno dei quali ha rappresentato una rottura rispetto al precedente, e la necessaria tradizione da rompere per quello seguente. E a proposito di Pino, ci pensa Carotenuto a mettere le cose a posto: “Eduardo fa a teatro negli anni ’40 quello che Pino Daniele e Napoli Centrale faranno nella musica negli anni ’70”.
Alla fine, cosa rimprovera De Simone a De Filippo? Di aver fatto un teatro di parola, intimistico e centrato sui contenuti. Cioè, di non aver ripreso e rivisitato la tradizione popolare, bassa, intrisa di musica e di improvvisazione, adattandola alle esigenze, artistiche e politiche, della contemporaneità, per creare una forma artistica sorprendente e nuova, un’audace sperimentazione, una magnifica avanguardia. Che sono le cose che De Filippo non ha fatto, perché magari non voleva, o non poteva fare. Ma sono precisamente le cose che ha fatto – benissimo – De Simone. Allora, torno a chiedermi: cosa rimprovera De Simone a De Filippo? Di essere stato De Filippo e non De Simone. Che è un po’ come se uno rimproverasse, che ne so, a Borges di non essere stato Bolaño. Anzi, è come se Bolaño rimproverasse a Borges di essere stato Borges e non Bolaño. E questo è veramente troppo.
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