Teatro
Con Romeo Castellucci davanti all’enigma
A me sembra che il teatro di Romeo Castellucci si presenti – almeno per le poche occasioni che abbiamo di vederlo in Italia – sempre più in forma di enigma, di mistero da decifrare. Sarà che sto invecchiando, e le sinapsi non corrono più tanto veloci, ma di fronte agli allestimenti recenti di Romeo mi pongo come di fronte alla sfinge, provando a capire, a decrittare quel che l’artista vuole dirci. E non è un caso che Castellucci si stia sempre più occupando delle cosiddette teorie della ricezione, ovvero di quanto e come ogni singolo spettatore riceva dello spettacolo.
Si tratta di scartare i segni troppo immediati, diretti: non è lì che si annida il mistero. E forse si tratta anche di saltare a piè pari gli elementi troppo accattivanti nel loro cripticismo. Da un lato c’è, forse, un’immediatezza che è necessariamente spettacolo; dall’altro c’è il rischio di trovarsi di fronte a soluzioni incomprensibili forse perché non hanno bisogno di essere tradotte, spiegate: ossia elementi appena evocati che pure danno suggestioni liminali.
Mi è accaduto anche per Democracy in America, visto in prima nazionale al Metastasio di Prato, in questi giorni a Bologna, poi a Trento, e di seguito in una lunga tournée internazionale.
Qui, a far da punto di partenza è il testo ottocentesco del francese Alexis de Tocqueville, il sociologo antelitteram che si mise a studiare le strutture carcerarie statunitensi e ne trasse due volumi di ponderosa e attenta analisi del sistema sociale, elettorale, politico dei giovanissimi Stati Uniti.
Ma come spesso accade, il testo scelto da Castellucci risuona più come pre-testo o con-testo, come cornice simbolica, oppure come folgorazione che si fa humus per far fiorire altro, per portare l’indagine su altro.
Ho letto le tante, belle recensioni scritte da colleghi sullo spettacolo: e in ciascuna emergevano spunti di grande interesse per raccontare e capire al meglio il lavoro (qui alcune: la recentissima di Massimo Marino, poi Alessandro Iachino e Valentina De Simone).
Ma certe domande continuano a girarmi per la testa, e voglio affrontarle.
A predominare nelle intepretazioni, infatti, è l’idea che il nodo dello spettacolo fosse – come peraltro dichiara lo stesso regista – la fine della democrazia, in un definitivo crollo della polis ateniese. Vibra il cuore nero dell’America, la violenza che è alla base della struttura piramidale governativa che tiene gli Stati Uniti. D’accordo: sappiamo almeno da Walter Benjamin che ogni civiltà si basa anche sulla violenza e la sopraffazione. Così ricordiamo bene quanta violenza ai danni dei nativi americani sia stata inflitta in nome di Dio per conquistare quelle terre: sarebbe bastato, che so, per far rimandi cinematografici più noti, Mission di Roland Joffè, per evocarlo. E sappiamo anche quanto la mano armata vada di pari passo alla mano che firma trattati: da C’era una volta in America al discutibile Gangs of New York fino a Questo non è un paese per vecchi, il nostro immaginario è saturo di immagini del genere.
Quindi, no: per me non si cela qui il mistero.
Poi vi è il tema del linguaggio, giustamente evidenziato da tanti colleghi: sicuro, è una questione aguzza, aperta che Romeo Castellucci e Claudia Castellucci (cui si deve il testo di questo Democracy in America) hanno a cuore dagli inizi dell’avventura della Socìetas. Tra i tanti esempi che si possono fare, basta ripartire dalla Lingua Generalissima, con i suoi lemmi basici e onnicomprensivi, creata a metà degli anni Ottanta; tornare alle registrazioni delle glossolalie artaudiane di Attore il tuo nome non è esatto, al suggestivo e improbabile dialogo tra una telecamera-cane e una luce-donna in Ethica, passando per la scomposizione di Genesi e di alcuni capitoli della Tragedia Endogonidia, il teatro di Romeo è davvero un “corso di linguistica generale” (come si intitolava il bell’omaggio che la città di Bologna ha reso all’artista qualche anno fa). Va bene, ma non basta.
Allora cosa c’è che manca.
Se mi consentite un bisticcio di parole, in Democracy in America manca una mancanza. Ossia si avverte fortissima un’assenza. In primo luogo nello spettacolo stesso: il montaggio delle sequenze è lineare, addirittura narrativo – con lunghe scene dialogate, una novità per Castellucci – ma si attende qualcosa. Almeno io ho avuto la sensazione di attendere qualcosa, che non è arrivato. Nella struttura del lavoro c’è una sospensione, uno slancio, una invocazione: è lo spettacolo stesso che si trova di fronte all’enigma.
Mi pare, insomma, che sia qui il nodo: ancora l’assenza di Dio, tema ricorrente soprattutto in creazioni recenti di Romeo, qui si fa paradigma di condizione non solo umana (con i personaggi della coppia puritana che imprecano o invocano Dio) ma anche eminentemente teatrale. Della furia iconoclasta degli anni Ottanta di Santa Sofia, dunque, che pure era riflesso di una condizione di ossessivo pensiero a Dio, all’immagine del Cristo di Antonello da Messina che sovrasta Sul concetto di Volto, fino alle evocazioni primitive e fragili dei cavernicoli preistorici che cercano consolazione con la pittura rupestre, il viaggio di Castellucci è un tentativo costante di ribadire la domanda eterna: “perché ci hai abbandonato”.
Ecco, ancora una volta qui c’è un Nadir, un’oscurità, una perdita, una feroce mancanza. Uomini e donne piccini, minuscoli, di fronte alla Storia e a Dio: in attesa, sofferenti, affamati, scorticati e imbrattati. Dio non c’è, non c’è più. Le fondamenta puritane degli Stati Uniti sono vuote? E come ci rapportiamo con le fondamenta religiose, cattoliche della nostra formazione? Democracy in America è il gesto di un uomo, di un artista, che si interroga e interroga – fino allo spasimo – attraverso l’opera, che è gesto devoto, invocazione, domanda sistematica, maledizione.
Poi, va detto, lo spettacolo ha delle imperfezioni, la scena iniziale delle majorettes era un po’ pasticciata; le due performer principali, Olivia Corsini e Giulia Perrelli, mi sono sembrate a tratti in eccessivo affanno; certe situazioni erano davvero ridotte troppo a un barlume, tanto da risultare eccessivamente impalpabili per lo spettatore.
Eppure non so: per quel che mi riguarda, sono certo di non aver risolto l’enigma. Ma attorno a questi oscuri presagi di assenza mi soffermerei ancora a lungo, interrogativo.
(l’immagine di copertina è di Guido Mencari)
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