Teatro

Con quella facciata un po’ così: a Vicenza vive il Teatro Olimpico

18 Ottobre 2016

L’altro giorno ci interrogavamo sull’uso di spazi “naturali” per il teatro.

Oggi, con una prospettiva completamente ribaltata, dobbiamo riflettere sull’uso di spazi teatrali “anomali”, ossia edifici per lo spettacolo che, data la loro imponenza, rischiano di inglobare (o inghiottire) gli spettacoli stessi.

Se ne parlava, giorni fa, al Teatro Olimpico di Vicenza, con gli organizzatori del Festival Conversazioni Olimpico, Franco Laera con Adriana Vianello. I quali devono essersi giustamente chiesti, di fronte a tanto sfarzo architettonico: e mo’ che ne facciamo di questa cosa qua?

Domanda affascinante, e prospettiva intrigante: porsi in modo strutturato un simile problema è senza dubbio utile, perché la risposta non è affatto banale. Come, in passato, ci si interrogò a lungo sui “minima theatralia”, ovvero sull’uso possibile di quegli spazi teatrali storici, piccoli o piccolissimi, disseminati sopratutto nei tanti Comuni del centro-nord Italia, si tratta di rispondere sempre di nuovo agli interrogativi posti dai grandi teatri antichi, come Vicenza, ma non solo: lo Sferisterio di Macerata, il vero-finto Farnese di Parma, e il Bibiena di Mantova o il teatro di  Sabbioneta, senza escludere i tanti grandi teatri greco-romani.

Non si tratta dunque solo di programmare rassegne più o meno belle e riuscite, quanto di porsi il problema del senso (drammaturgico) di quello spazio in una prospettiva sociale, politica e artistica tutta contemporanea – tema che, del resto, come insegnano i maestri della Regia, ha attraversato tutto il Novecento.

L’occasione per parlare dell’Olimpico a Vicenza, allora, è stata lo spettacolo di Moni Ovadia, Delfi Cantata, realizzato con Studio Azzurro; ma già alcuni giorni prima, il prestigioso teatro vicentino aveva ospitato Go.Go.Go., prima regia teatrale del maestro del cinema russo Aleksandr Sokurov. Nell’articolato programma del festival, che va ad ampliare con un respiro diverso il tradizionale ciclo di spettacoli classici, erano anche Bob Wilson, Balletto Civile, Tim Crouch, Anagoor, il Teatro Noh di Sakurama Kai, Paticia Zanco, Teatro del Lemming e altri.

Tutti (o quasi), dunque, si sono dovuti cimentare con lo spazio dell’Olimpico o con quello, altrettanto “originale” della Basilica Palladiana.

Sokurov all'Olimpico
Sokurov all’Olimpico

Chi ci è stato lo sa, il Teatro Olimpico è un capolavoro di architettura cinquecentesca, ideato da Palladio e realizzato con le meravigliose scene fisse dello Scamozzi, che sono un miracolo di prospettiva e di difficoltà.

Inaugurato nel 1585 con un Edipo re, l’Olimpico è oggi una sorta di centauro: metà museo, regolarmente visitato e conservato gelosamente, e metà teatro, “usato” per quel che è possibile, per spettacoli veri e propri. E fare i conti con quella “facciata” non è facile. Come per la Cour d’Honneur di Avignone: c’è un articolo molto bello, scritto da Roland Barthes a metà degli anni Cinquanta, in cui il critico e studioso racconta Avignone d’inverno e dice, più o meno, che quello spazio è solo un “cortile” ma d’estate diventa “teatro”.

Ecco, lo stesso accade a Vicenza: un museo, un bel museo si muta in teatro, e dunque spazio per gente, incontri, parole, suoni. Rito e festa, come si dice. Ossia un luogo che diventa vivo, grazie alla performance (teatrale) che serve anche per rendere performativo il patrimonio. Non è un caso che nelle culture anglosassoni si parli, attivamente, di “Performing Heritage”, e ci si chieda sistematicamente come far vivere il patrimonio oltre la conservazione e l’esposizione.

Insomma, lo spazio museale-teatrale riconquista, ogni anno, la funzione originaria, pristina, ma nella sfida lanciata da Conversazioni Olimpico sembra con una verve rinnovata, tutta contemporanea.

Quel teatro non lo si può trattare in modo indifferente, né pensare di domarlo agilmente: si tratta di farci i conti e reinventarne una funzionalità d’oggi.

Olimpico 28-09-16 Go.Go.Go (foto Francesco Dalla Pozza/Colorfoto)
Go.Go.Go, foto Francesco Dalla Pozza/Colorfoto

Così, per lo spettacolo Go.Go.Go. ha fatto, ad esempio, e con grande maestria, Margherita Palli, che ha demistificato e umanizzato lo spazio.  Ha espanso lo spazio scenico in parte della platea, creandoo una piazza italiana anni sessanta (e la facciata dunque è quella di un ipotetico “palazzo” con tanto di glicini proiettati) dove transita una umanità sfaccendata e appassionata, in cui spiccano, riconoscibili, un Federico Fellini e una Anna Magnani. Prendendo spunto dall’opera teatrale Marmi, di Josef Brodskij, la regia di Sokurov appronta uno spaccato corale, va detto piuttosto pasticciato, in cui emergono qua e là figure solitarie o ambigue, come i due protagonisti (bravi Max Malatesta e Michelangelo Dalisi) o lo stesso poeta Brodskij, cui dà voce, in modo sublime, il sempre ottimo Elia Schilton. L’esito generale, però, risente di una certa confusione: per quanto sia indiscutibile al cinema, Sokurov scivola sulla gestione del gruppo e su alcuni dettagli (perché, ad esempio costringere una raffinata e bella attrice come Karina Arutyunyan, uzbeka d’origine e di validissima scuola, a parlare quel romanaccio stentato?). E l’esito lascia piuttosto perplessi.

Moni Ovadia
Moni Ovadia

Diverso l’approccio, sapiente e calibrato, di Moni Ovadia. Dopo un prologo nel giardino antistante il teatro, Ovadia entra in scena e si impossessa del palco con ferma consapevolezza. Sarebbe riduttivo chiamare lettura la sua interpretazione, per quanto al leggio, dello struggente testo di Yannis Ritsos, nella fluida traduzione di Nicola Crocetti.

Delfi Cantata è un omaggio alla bellezza antica, alla sapienza dei classici e, al tempo stesso, una amara analisi del nostro presente. A far da narratore è il custode del sito archeologico di Delfi, che Ritsos immagina stanco, a fine giornata, alle prese con un bilancio non solo della sua vita, ma anche e soprattutto spaesato rispetto al declino generale di questa nostra sfranta umanità occidentale. Di fronte a quel Bello, all’autorevolezza assoluta dell’antichità, il brutto avanza con inesorabile ottusità: il consumo turistico della memoria collettiva, la vorace ricerca di un presenzialismo gratificato da colpi di selfie, la superficiale banalità di chi guarda e non vede, di chi ascolta e non capisce sono oggetto degli strali – più rassegnati che disperati – dell’anziano custode. Moni Ovadia fa bene, benissimo, a mantenere ampi stralci (se non la totalità) del poema in greco originale, con agili passaggi all’italiano: con la grana della voce nobile e popolare di Ovadia, sulle musiche composte da Piero Milesi, quella lingua straordinaria risuona nell’Olimpico come un antico vaticinio, un canto, un rito.

Mentre le proiezioni di Studio Azzurro isolano, illuminano, tratteggiano la facciata del teatro, svelandone particolari e dettagli, Delfi Cantata acquista il sapore mesto di una disperante sconfitta: come per l’eroico custode di Palmira, Khaled Al-Asaad, ucciso dall’Isis, qua c’è da lottare per difendere quelle “rovine”, per farle ancora vivere e rispettare, non solo dai colpi del turismo di massa, quanto dalla progressiva insipienza di quel pensiero semplificato, ormai conclamato orizzonte di riferimento di troppi politici e amministratori.

Ma il custode di Delfi non è un eroe, forse è un anti-eroe, più bonario e umano: non gli resta che andare a bere, con il suo giovane e silenzioso assistente, un bicchiere di retsina e mangiare un pesce grigliato. La vita va avanti, il sito archeologico chiude, i turisti torneranno il giorno dopo, allegri e spensierati.

 

 

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