Teatro
“Con la carabina”, uno sparo nel luna park del patriarcato
Un colpo solo. Uno sparo in gola per azzerare il male fatto, quello ricevuto. Ma il conto non pareggerà mai. Neanche con una vendetta. Nel paese degli Orchi, l’Italia, il debito di violenza, sopraffazione ed esercizio di dominio del maschio sull’altro sesso è enorme. Quasi inestinguibile. Annidati spesso nel cuore della sacra famiglia, sono pronti a colpire e ghermire la vittima designata: la più fragile e indifesa. Sono padri che si nascondono dietro un silenzio complice, anche per anni. Zii e amici che profittano di una sorta di zona franca. Un gineceo a disposizione senza alcun senso di colpa. Retaggio antico, moderno sfruttamento schiavistico che colloca ancora la donna al centro di ignobili trame in cui quello che conta è solo il loro corpo, e il desiderio insopprimibile di autorità e di possesso dell’uomo. Così si giustifica ancora la sopravvivenza di un rudere antropologico quale è il patriarcato causa non certo unica ma spesso determinante in storie di violenze e femminicidi.
Puntuale, urgente e necessario allora che si vedano e diffondano opere teatrali come quella presentata -sempre tutto al completo- nei giorni scorsi al Teatro delle Moline di Bologna per iniziativa dell’ERT /Teatro Nazionale e coprodotta dalla compagnia con Polis Teatro Festival, premio Ubu 2022 come testo straniero e premio Ubu 2022 per la regia. “Con la carabina”, folgorante racconto della scrittrice teatrale francese Pauline Peyrade narra un caso di una bambina – giudicata consenziente da un tribunale francese-, stuprata da un amico di famiglia. Affidato alla cura di una teatrante solida come Licia Lanera è stato trasformato in un affilato e inesorabile “j’accuse” dai tempi stretti, simile al meccanismo di una bomba a orologeria. Sono sensazioni a fior di pelle che emergono in un ambiente minimo e ridotto, dove gli spettatori sentono il respiro di una storia che cresce in tempo reale. Un congegno crudelmente preciso governato dal vivo da un’ottima coppia d’attori, Danilo Giuva ed Ermelinda Nasuto immersi in un progressivo e ambiguo “jeu de massacre”. L’aggressore e la vittima. Quest’ultima interprete notevole, segnata dal dolore e dalla fierezza di donna pronta al riscatto. Sono entrambe pedine di un vortice infernale iniziato in un luna park, evocato da una ruota colorata collocata su un tavolo attorno al quale si sviluppa la storia: location di una sfida infernale raccontata per flash back e rari colpi di teatro, precisi e secchi come uppercut su un ring. (Di bella efficacia il sound design di Francesco Curci e le luci di Vincent Longuemare).
“C’è tuo fratello? È agli autoscontri. Perché non vai a trovarlo? Tua madre mi ha detto di tenerti d’occhio. Così. Sì, me l’ha detto. Mi ha detto: “Vai a vedere cosa fa la ragazzina, non mi piace che giri intorno alla fiera”.
L’esca è lanciata. Il predatore inizia a lavorarsi la vittima.
Il tono è confidenziale, l’uomo ammicca e blandisce. “Ti insegno io a sparare bene”. E’ un binario doppio dove i sentimenti si scontrano con un gioco talmente grande per una bambina che non può, non sa come fermare. Chi non si ferma è l’orco che va dritto alla violenza. La carabina è lo strumento per fare centro e guadagnare il pelouche, un grande coniglio di pezza. Il sorriso diventa una piega amara e rabbiosa. E, sola nella stanza, lavandosi i denti come a lavare via la violenza mentre salgono le note della musica di Billie Eilish inizia a covare la ribellione.
La bambina abusata, accumula rabbia. Diventata giovane donna, affronta chi l’ha violentata. Con una carabina. Forse non vuole la classica vendetta, solo mostrare al violentatore la ferita che le ha inferto per una vita. Chi ha dominato il gioco ora è dominato. Una donna si ribella alla violenza e a secoli di cultura maschile e patriarcale e a una società solidale con gli orchi.
Un colpo secco. Dentro la bocca.
Ci sono cose che non si possono aggiustare. E che il male di vivere quotidiano rende impossibile.
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